Riguardo alla Turchia e a Orhan Pamuk

Dal Manifesto di oggi, un articolo sull’autore e uno sul Paese. Malinconico e visionario in sospeso tra due mondi – Tommaso Pincio Qualcuno già malignava prima del momento fatidico. Le voci insistenti che fin dallo scorso anno assegnavano il Nobel a Orhan Pamuk sono state talvolta accompagnate da una battuta cattiva: «un premio sottratto a […]

Rauschenberg, "Red Import"


Dal Manifesto di oggi, un articolo sull’autore e uno sul Paese.

Malinconico e visionario in sospeso tra due mondi – Tommaso Pincio
Qualcuno già malignava prima del momento fatidico. Le voci insistenti che fin dallo scorso anno assegnavano il Nobel a Orhan Pamuk sono state talvolta accompagnate da una battuta cattiva: «un premio sottratto a Umberto Eco». L’allusione fa riferimento a Il mio nome è rosso, il romanzo che ha definitivamente consolidato la notorietà dello scrittore turco nel mondo anglosassone e, di rimando, in altri paesi occidentali, Italia compresa. In effetti, le somiglianze con Il nome della rosa sono forti e non si limitano al titolo. Entrambi sono romanzi storici che raccontano un fatto di sangue consumatosi nel mondo dei miniaturisti e i conseguenti sforzi investigativi per individuare il colpevole. Anche lo stile è in entrambi i casi di matrice postmoderna e si richiama esplicitamente a maestri come Borges. Non è improbabile che Eco abbia esercitato una qualche fascinazione su Pamuk, il quale è tra l’altro un profondo conoscitore della cultura italiana. Tuttavia egli rimane quanto di più distante ci possa essere da un versatile intellettuale prestato con successo alla letteratura. Sicuramente, nella scelta dell’accademia svedese hanno pesato considerazioni di ordine politico, nella fattispecie la persecuzione di cui lo scrittore turco è stato oggetto in patria, ma è fuor di dubbio che stiamo parlando di uno fra i maggiori autori viventi. Per essere chiari, Orhan Pamuk è uno scrittore nel senso più puro del termine, ovvero un uomo da sempre ossessionato da un fantasma che poteva esorcizzare inventando personaggi e luoghi da descrivere, e storie da narrare. Quale sia questo fantasma è presto detto. O meglio ce lo dice egli stesso in apertura del suo libro più recente, Istanbul (Einaudi, trad. Semsa Gezgin) malinconico e visionario affresco della città dove Pamuk è nato e ha trascorso in pratica l’intera esistenza. Una fantasia con ricadute reali. «Fin da bambino, per tanti anni ho creduto che vivesse un altro Orhan, del tutto simile a me, un mio gemello, uno completamente uguale a me, in una strada di Istanbul, in un’altra casa simile alla nostra». Quello del doppio è un motivo tipico della letteratura dalla notte dei tempi, ma nel caso di Pamuk l’ossessione di doversi confrontare con un sosia – un altro da sé che ha le sembianze di un riflesso deformato quel tanto da porsi come una minaccia all’identità personale – non è soltanto un’intima fantasia, ma trova il suo deciso corrispettivo nello spazio reale, nelle strade dove da sempre lo scrittore, passeggiando meditabondo, diventa a sua volta un fantasma. Istanbul è per antonomasia una porta tra due mondi, il ponte che, seppure in termini soventi conflittuali, ha unito Oriente e Occidente. «Ho trascorso la mia vita a Istanbul – scrive Pamuk – sulla riva europea, nelle case che si affacciavano sull’altra riva, l’Asia. Stare vicino all’acqua, guardando la riva di fronte, l’altro continente, mi ricordava sempre il mio posto nel mondo, ed era un bene». Con il trascorrere della vita, la città reale e il fantasma di Pamuk sono diventati sempre più una cosa sola, «una scena da sogno», una storia reale inestricabilmente confusa a racconti di fantasia. Un romanzo, in altre parole. L’evoluzione letteraria di Pamuk ha seguito un andamento simile. Ha preso il via con opere intrise di un realismo di stampo quasi ottocentesco per poi diventare altro, un gioco di specchi dove è la finzione a offrire l’immagine più fedele e profonda del reale. Anche la biografia dello scrittore è segnata dal confronto simbiotico tra due opposte sfere. A cominciare dal padre, che oltre a essere stato il primo dirigente della filiale turca di un’importante multinazionale occidentale, l’Ibm, spinse il figlio a iscriversi all’Università Tecnica. Il giovane Orhan non poté fare a meno di rispondere alla voce del suo fantasma. Abbandonò così la facoltà di architettura per dedicarsi anima e corpo alla scrittura, mostrando fin da subito il particolare carattere di chi, culturalmente parlando, è un ibrido. Pur sentendosi turco a tutti gli effetti, Pamuk aveva infatti studiato presso il liceo americano Robert College di Istanbul. Gli esordi risalgono al 1974 e si intitolano Cevdet Bey ve Ogullari. Il libro, ancora inedito in Italia, è la saga di una tipica famiglia borghese mediorientale la cui tempra viene infiacchita nell’arco di tre generazioni dalla progressiva occidentalizzazione della cultura turca. Passerà quindi quasi un decennio prima che Pamuk dia alle stampe un nuovo romanzo: La casa del silenzio (1983) è ancora una volta una metafora della storia recente di quei luoghi, centrata attorno a un dramma famigliare. Tre giovani che trascorrono una turbolenta estate nella casa ormai in rovina della loro nonna agonizzante, mentre fuori, nelle strade di Istanbul, infiamma la battaglia tra chi vuole aprirsi alla modernità e chi rimane pervicacemente legato alle vecchie usanze. Raccontata attraverso cinque voci diverse, la vicenda si dipana con un piglio realistico e ricorda da vicino lo stile di Faulkner. Due anni dopo giunge Il castello bianco. Ambientato negli anni d’oro dell’impero ottomano, il romanzo sovrappone, con modalità più nette dei precedenti, doppio e alterità. Narra di un gentiluomo italiano catturato dai pirati e venduto come schiavo a un astrologo turco. La straordinaria somiglianza fisica tra i due aprirà la strada a un profondo legame spirituale, una suggestiva metafora per affermare che Oriente e Occidente non esistono se non come pregiudizio culturale. «Per me il mondo è un unicum» è solito ripetere Pamuk. L’opera più complessa e riuscita – il capolavoro assoluto dello scrittore – è però quella successiva. Salutato più che calorosamente dal New York Times – «Una nuova stella è sorta a est» – Il libro nero (1990) è il romanzo che ha imposto Pamuk all’attenzione del pubblico anglosassone. Qui lo stile dell’autore conosce la svolta della piena maturazione. Il motore del libro è apparentemente dei più comuni e tradizionali. Da un giorno all’altro, il giovane avvocato Galip sperimenta il comune e lacerante dolore dell’abbandono. Sua moglie, la bella Rüya, si dilegua improvvisamente nel nulla. Galip sospetta che sia fuggita con il fratellastro Celâl, eclettico giornalista autore di corsivi molti provocatori, che Galip ha idolatrato fin da bambino e dal quale anche Rüya è di sicuro attratta. A rafforzare questa ipotesi sembra aggiungersi il fatto che anche Celâl è diventato introvabile. Il giovane avvocato si mette in testa che la chiave per trovare Rüya sia quella di immedesimarsi nella complessa personalità di Celâl, e quindi di diventare Celâl. Galip indossa così i panni del detective metafisico, iniziando ad aggirarsi in una Istanbul che si rivela sempre più intricata e sfaccettata. Analogo destino tocca al romanzo che si fa sempre più divagante, girando su stesso mentre viene sballottato tra mille suggestioni e rimandi. Tutto prende le sembianze di un labirinto, dove realtà e invenzione non sono più distinguibili. Del resto, lo smarrimento era annunciato: Rüya in turco significa «sogno». Il libro nero è uno scrigno dove visioni oniriche si mischiano a meditazioni che riguardano la memoria, l’influenza esercitata dall’Occidente, le stelle del cinema, la politica, la scrittura, la poesia Sufi e la strada che porta alla suprema illuminazione, la religione e, naturalmente, l’amore e l’incesto. L’incesto sì, perché tra le tante cose Rüya è cugina di Galip, un’ulteriore metafora di come la diversità non sia altro che un velo oltre il quale si nasconde un legame carnale così forte da trascendere i codici culturali. È un romanzo, questo, chiaramente figlio di Sharazade e delle Mille e una notte ma anche di una tradizione che partendo da Borges è diventata il verbo trainante della contemporaneità occidentale, il postmoderno. Pensare di stabilire quale sia il legame di sangue e quale quello adottivo vorrebbe dire andare contro i desideri dell’autore. Per Pamuk, la verità è multiforme, stesa a strati come i tanti tappeti sul pavimento di una moschea. Non che la simbiosi tra i mondi sia sempre indolore, anzi. In Neve, il romanzo più recente di Pamuk, il protagonista è un poeta che, rientrato in patria dopo un lungo periodo di esilio politico in Germania, non sa rifiutare l’offerta di recarsi in veste di giornalista a Kars, sperduta cittadina dell’Anatolia orientale, per riferire in merito alle imminenti elezioni comunali e a una dilagante quanto misteriosa epidemia di suicidi femminili. Perché le donne hanno improvvisamente iniziato a togliersi la vita? Come nei libri precedenti, il mistero è un pretesto per dipingere un affresco della Turchia e del destino che impone di vivere in perenne sospensione tra due mondi, un piede verso la completa occidentalizzazione e l’altro incatenato a un passato levantino che fa sentire le sue ragioni con la voce esaltata del fanatismo religioso. Una citazione da Conrad posta in epigrafe – «L’occidentale che è in me era turbato» – fa però pensare che l’autore abbia inteso rivolgersi anche al lettore straniero. Non si può negare, in effetti, come l’occidentale che è in noi sia alquanto turbato dal modo in cui l’Islam ha adottato il suicidio quale strumento di lotta politica. La semplice eventualità di votarsi al martirio in nome di una guerra santa, o magari solo per affermare il diritto di continuare a portare il velo – come avviene nel caso delle giovani donne di Neve – appare inaccettabile, una pratica barbara da lasciarsi alle spalle. Pamuk ribalta però i termini della questione. «È certo che il motivo del suicidio di queste ragazze è la loro eccessiva infelicità – dice uno dei personaggi del romanzo – ma se l’infelicità fosse il vero motivo di un suicidio, in Turchia la metà delle donne si ucciderebbe». Con ciò torniamo nella sfera delle evidenze che non si possono negare, perché è ovvio che un analogo ragionamento vale anche per gli occidentali infelici. Dunque, perché non prendere in considerazione – anche questo avviene in Neve – che il problema sia piuttosto un’epidemia contagiosa, una malattia più che una scelta dell’individuo? Il suicidio, lo si è detto, svolge però una funzione meramente simbolica, e che sia così lo confermano le coincidenze fin troppo esplicite di cui il romanzo abbonda. Un personaggio di nome Ka si reca nella cittadina di Kars, la quale cittadina si trova isolata dal resto del mondo a causa della neve; guarda caso, neve in turco si dice kar. L’atmosfera di metafisica sospensione in cui è situata Kars ricorda inoltre, molto da vicino, le piogge insonni che ingabbiano certi villaggi di Marquez o il paese «sprofondato nella neve» in cui giunge K. all’inizio del Castello di Kafka. A questo punto non resta che porsi una domanda: cosa si nasconde dietro il simbolo del suicidio? Cui dovrebbe fare seguito un altro quesito: cosa turba davvero l’occidentale che è in noi? Gioia e tristezza di un luogo tra due rive. Rispettando un cliché consolidato del romanzo kafkiano, gli abitanti di Kars guardano il visitatore con estrema diffidenza. Tutti si chiedono per quale nascosta ragione sia venuto. Alcuni azzardano che sia una specie di agente en travesti, altri che sia stato mandato dalle forze occidentali con un non meglio precisato «incarico speciale». Qualcuno, infine, pensa semplicemente che «è venuto qui perché è infelice». E infatti, Ka è un poeta che non scrive un verso da anni. È un uomo di mezza età che se ne frega della politica e non sa più se credere in Dio; è a tal punto inebetito dalla propria malinconia da assistere alle tragedie di Kars con assoluta e confusa indifferenza; è infine un uomo che cova «un profondo desiderio di innamorarsi» a priori. Ka si è ridotto così perché si è occidentalizzato. Ma dal momento che a Kars le persone «si uccidono a vicenda come animali e dicono di farlo per la felicità della città», Oriente e Occidente non costituiscono una risposta, e l’unica cosa davvero certa è che la tristezza del mondo non conosce frontiere. La tristezza, però, non è senza speranza: in essa consiste la bellezza di un luogo e dunque la gioia di viverci. «E poi, un giorno, – scrive Pamuk – è stato costruito un ponte che collegava le due rive del Bosforo. Quando sono salito sul ponte e ho guardato il panorama, ho capito che era ancora meglio, ancora più bello di vedere le due rive assieme. Ho capito che il meglio era essere un ponte fra due rive. Rivolgendosi alle due rive senza appartenere totalmente né all’una né all’altra svelava il più bello dei paesaggi».

Coincidenze. La Francia punirà chi nega la storia del genocidio armeno
Fabio De Propris
Ieri il parlamento francese ha varato una legge per cui chi oserà negare la realtà storica del genocidio degli armeni sarà perseguito. In Turchia, invece, si può al massimo arrivare a ammettere la morte di alcuni armeni tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, per responsabilità del sultano prima e della guerra mondiale poi, ma non si può pronunciare la parola «soykirim», genocidio. Più in generale, se c’è qualcosa che un turco non deve fare, è parlare male del suo paese, che Mustafa Kemal riuscì a preservare dalle mire di inglesi, francesi e italiani, pronti a spartirsi quanto rimaneva dell’impero ottomano all’inizio del XX secolo. La Turchia nata nel 1923 è una nazione moderna, che fonda la sua unità non più sulla umma, la comunità dei credenti musulmani, e sui vari millet, ossia le minoranze religiose ufficialmente riconosciute come tali – tra cui gli armeni e i greci, ma non certo i curdi, che appartengono alla maggioranza islamica – bensì sull’identità etnica. Dal momento in cui la Turchia ha abolito il califfato diventando una nazione laica ha trovato un senso solo in quanto terra dei turchi. La sua nascita, insomma, ha rappresentato una violenta separazione dal passato ottomano. Dal 1928 si scrive in caratteri latini, si parla una lingua antichissima ma anche molto nuova, che lentamente ma con determinazione si è liberata degli arabismi e dei persianismi dilaganti nel turco classico dell’epoca ottomana: una lingua che cerca nel passato parole puramente turche in cui riconoscersi. Inoltre, la Turchia è un paese nato da un insieme di azioni militari, che trova nell’esercito la sua legittimazione. Le alte gerarchie militari dagli anni ’60 agli anni ’80 hanno promosso tre colpi di stato per «salvare» il paese dagli islamisti, dalla sinistra e poi di nuovo dagli islamisti (e non è certo finita). Sulla nascita della repubblica turca pesa non soltanto il genocidio degli armeni, realizzato a più riprese dal 1894 al 1915, ma anche la negazione della nascita di una terra dei curdi, quel Kurdistan previsto dal trattato di Sèvres nel 1920 e scomparso dal trattato di Losanna nel 1923. Contro questa Turchia un turco non può parlare male: lo afferma oggi esplicitamente l’articolo 301 del codice penale che condanna «l’oltraggio all’identità turca». Condanna sfidata da Orhan Pamuk che nel febbraio 2005 ha osato ricordare, in un’intervista ormai famosa al giornale svizzero Zürcher Tagesanzeiger, come in Turchia siano stati uccisi un milione di armeni e di curdi. Il processo contro di lui è stato istruito ma non si è poi svolto. Come sempre, anche in questo caso la Turchia si è divisa tra forze politiche e culturali opposte: i nazionalisti più chiusi e arroccati su posizioni difensive (perché si sentono minacciati tanto dagli europei visceralmente antiturchi, quanto dal fondamentalismo islamico) si sono scagliati contro uno scrittore che non considera il suo essere turco un glorioso segno del destino, né lo ritiene un privilegio mistico. D’altra parte, lo stato stesso (nella persona dei magistrati) non se l’è sentita di portare alle estreme conseguenze una legge contro i reati di opinione che rischia di tramutarsi in un boomerang e quasi sempre scagiona gli imputati (com’è successo anche nei casi delle scrittrici Perihan Magden e di Elif Shafak). Così, la notizia del Nobel assegnato a Orhan Pamuk ha scatenato in Turchia reazioni contrastanti: scrittori famosi (tra i più noti c’è Yasar Kemal) e lo stesso ministro della cultura e del turismo hanno espresso la loro gioia. Ma i giornali popolari come il Sabah, non hanno mancato di sottolineare negativamente la coincidenza della legge francese sul genocidio degli armeni con il conferimento del nobel a Pamuk. Se molti intellettuali turchi si sentono già «europei» e rivendicano – per usare le parole della scrittrice Perihan Magden – «il diritto di vivere in Turchia parlandone male», il paese «reale» teme gli europei «anche quando portano doni» e fatica a fare i conti con la propria storia, probabilmente credendo che un esplicito riconoscimento del genocidio armeno minerebbe mortalmente quella identità turca nata dall’epopea militare il cui eroe fu Mustafa Kemal Ataturk, lasciando spazio a un fondamentalismo islamico che esercita già una forte presa nella società.

Questo invece è dal Corriere (ed è ovviamente più qualunquista)

I romanzi della liberta’ – PIERLUIGI BATTISTA
Orhan Pamuk nel 2005 ha rischiato tre anni di reclusione nelle carceri turche, accusato di un reato d’opinione, e da ieri è Premio Nobel per la letteratura. Uno splendido risarcimento per lui, una buona novella per chi osserva con sgomento con quanta facilità gli scrittori, i giornalisti, gli intellettuali vedano mortificata la loro libertà di parola e di espressione. E non come sopravvivenza ottusa ma residuale di un vecchio oscurantismo, bensì come manifestazione di un nuovo fanatismo intollerante e aggressivo che vede nella libertà il sintomo di un mentalità corrotta, e nella parola libera addirittura il segno di una depravazione morale. Per questo fanatismo, lo scrittore Pamuk gratificato del Nobel è l’incarnazione di una sconfitta. Perciò, per tutti gli altri, è un’ottima notizia. E’ vero, c’è qualcosa di insano, in questo insistere sulla cornice politica o comunque extraletteraria delle motivazioni con cui si è assegnato un premio dedicato pur sempre alla letteratura. Ma oramai la storia del Nobel ci ha abituati a questa distorsione, accentuando il valore politicamente emblematico di una scelta, a scapito dell’eccellenza letteraria del candidato prescelto. Nel caso di Pamuk, la sintesi sembra miracolosamente compiuta, ma questo lo possono confermare solo i critici letterari. Resta l’impatto simbolico di un verdetto secondo il quale scrivere liberamente del genocidio degli armeni, come nel caso di Pamuk, non porta alla censura e alla galera, ma al riconoscimento internazionale. Ogni volta che un intellettuale dissidente del blocco sovietico veniva insignito del Nobel, da Pasternak a Solgenitsin, da Milosz a Brodsky (o Sacharov, premiato per la pace) gli esponenti del potere comunista gridavano alla distensione violata, ma chi nascondeva i samizdat per leggerli in clandestinità gioiva e ne ricavava motivo di speranza. E chissà che, con il Nobel a Pamuk, questo salutare contrappasso non venga luttuosamente rivissuto dai dispotismi che tagliano la lingua e spezzano la penna a chi dissente. Un valore politico, e di pedagogia liberale, che appare ancora più evidente in una terra di confine, e dove sembrano sommarsi i nodi più aggrovigliati del confronto e dello scontro tra culture, come la Turchia. Ma se il rifiuto persino di parlare del genocidio armeno pesa talmente come un dogma identitario nella nazione turca da alimentare la tentazione di comminare la galera a chi, come Pamuk, osa sfidarne il tabù, l’Europa non può tuttavia consentirsi la spocchia di trasferire solo sugli altri dilemmi che la stanno drammaticamente investendo, oggi più di ieri. A cominciare dalla Francia e dall’Olanda, una nuova paura di parlare, di esporsi, di pubblicare liberamente idee e opinioni su temi incandescenti e controversi sembra diffondersi nel cuore della civile e tollerante Europa. Non si rischia la galera, ma il linciaggio, non le manette, ma l’isolamento. Anche per questo c’è da rallegrarsi per il premio a uno scrittore che ha tenuto il punto, non si è piegato, si è ostinato ad affrontare questioni decisive ma in Turchia, come ha dichiarato in un’intervista, «nessuno ne parla mai». Parlarne, stavolta, non ha comportato persecuzione e censura. Il Nobel della letteratura come contrappeso alle minacce e ai tribunali dei fanatici e dei guardiani del pensiero autoritario: non sarà un romanzo, ma almeno è un antidoto efficace.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.