People meet in architecture? – Arsenale batte giardini 5-3

Mah. La 12° mostra internazionale di architettura, quest’anno diretta dall’archistar giapponese Kazuyo Sejima, come ogni anno parte annunciando grandi innovazioni e promettendo forti emozioni, e come ogni anno mi lascia in bilico tra la perplessità e lo sconforto, con uno scoppiettante Arsenale e una serie di installazioni ai giardini che rimangono legate ad un modo […]

Mah.

La 12° mostra internazionale di architettura, quest’anno diretta dall’archistar giapponese Kazuyo Sejima, come ogni anno parte annunciando grandi innovazioni e promettendo forti emozioni, e come ogni anno mi lascia in bilico tra la perplessità e lo sconforto, con uno scoppiettante Arsenale e una serie di installazioni ai giardini che rimangono legate ad un modo decisamente vecchio di fare e trasmettere architettura. Certo, dopo un salone del mobile sottotono come pochi questa biennale sembra un tripudio di novità e intraprendenza, ma procediamo con ordine.
La biennale ha inaugurato nei giorni dal 26 al 28 e io c’ero. E anche quest’anno, come anticipavo e come accade da varie edizioni a questa parte, mi è parsa di una spanna superiore l’installazione all’arsenale, con la dovuta illustre eccezione del padiglione italiano: freddo, didascalico da morire, allestito senza spirito e senza gusto, riflette abbastanza bene l’architettura italiana a noi contemporanea e in modo assolutamente appropriato sfoggiava uno schermo centrale con il faccione di Gregotti. Scappando sufficientemente lontano, però, si potevano incontrare piccoli gioielli come la rampa tra le nuvole di Tetsuo Kondo (qui a destra) o l’installazione luminosa di Olafur Eliasson, sempre insuperabile in questo genere di cose, che quest’anno punta sugli effetti sonori dell’acqua concedendo, attraverso un’intermittenza di luci, la lettura ad occhio nudo dei singoli imprevedibili movimenti generati da un getto d’acqua che esce da una canna luminosa (infotografabile con strumenti umani: una foto qui). Entrambi molto emozionanti ed entrambi, meritatamente, al centro di tutte le prime cronache dalla biennale. Ma all’Arsenale c’era anche altro degno di nota, forse meno artistico ma non meno emozionante. Il Bahrain, per la prima volta alla biennale, espone al padiglione delle artiglierie un’installazione profondamente legata a quello che, sin dal nome, sembra essere l’elemento fondante della sua nazione: il mare. Decide quindi di trapiantare alla biennale, su un deck di legno sbiancato, tre capanne trapiantate dalla spiaggia (sotto) che diventano tre cabanas, tre salottini ciascuno contenenti un mondo e un’intervista al pescatore che ci abitava. Le interviste e il corposo pamphlet che le accompagna, rigorosmente in borsa di tela, sono una denuncia alla mala gestione del patrimonio marino e, nei loro piccoli dettagli di una vita passata, trasudano una poesia rara.

Altrettanta poesia riserva l’installazione Ucraina, ma a tinte più forti e senza nemmeno il fazzoletto per piangere, un’installazione che prende le mosse da Cernobyl per parlare in modo non banale del modernismo, della necessità di ricordare senza farsi condizionare dal passato, di progredire in modo consapevole, di espandersi senza interferenza: un involucro di lamiera arrugginita pervaso da fumi e luci industriali, con sullo sfondo l’immagine luminosa del grande complesso da trasformare in museo della tecnologia all’insegna della non interferenza con la natura. Un’installazione (a sinistra) che schiaccia completamente quella macedone con cui condivide lo spazio.
Stessi materiali industriali e messaggio simile per la bella installazione cinese, in cui centinaia di uccelli di cristallo squarciano l’involucro industriale di lamiere arrugginite per aggregarsi in uno stormo mosso da una ventilazione che crea simpatici effetti Marilyn alle visitatrici. Un’installazione non solo esteticamente notevole (ma si sa, io adoro queste atmosfere rugginose e steampunk) ma estremamente poetica e di grande significato, in un mondo come quello cinese in cui la schiavitù del lavoro si è spostata dall’agricoltura all’industria. Di certo ci vorrà del tempo prima che anche la Cina ci raggiunga nella schiavitù del libero professionista: nel frattempo sognano la libertà e la raffigurano in uno spazio buio, grezzo, antico, che si presta perfettamente allo scopo e che molti altri più illustri artisti e architetti hanno fallito nel considerare.

Merita una menzione, infine, l’installazione sonora di Janet Cardiff e George Bures Miller, che traducono lo Spem in Alium di Thomas Tallis nel loro Forty part motet, registrando separatamente le quaranta voci del coro della cattedrale di Salisbury e riproponendole ciascuna in un diverso amplificatore, disposto a cerchio in una stanza vuota riprendendo lo schema della composizione originale, ovvero otto cori da cinque voci ciascuno. Di certo nulla di innovativo se non un successo nella non banale impresa di riproporre digitalmente la stessa emozione suscitata da un coro di voci umane. E scusate se è poco.

Meno entusiasmanti le installazioni ai giardini. Tra i padiglioni nazionali che meritano una menzione d’onore, l’emozionante padiglione Canadese (una foto qui), l’astuta installazione belga che espone materiali consunti dall’usura come fossero opere d’arte e l’installazione Borderline architecture di Marcel Ferencz per l’Ungheria: milioni di matite appese in differenti contesti luminosi. Ma di questo magari scriverò un’altra volta

 

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