L’architettura nell’Era Digitale (Trento, 31 ottobre 2019)
Sono rimasta veramente stupita dalla quantità di persone che hanno scelto di passare con noi la serata del 31 ottobre, nella suggestiva e decisamente atipica cornice dello Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas a Trento. Ringrazio nuovamente per l’invito il Circolo Trentino per l’Architettura Contemporanea, che ha organizzato l’evento e registrato la serata: è stato uno degli interventi […]
Sono rimasta veramente stupita dalla quantità di persone che hanno scelto di passare con noi la serata del 31 ottobre, nella suggestiva e decisamente atipica cornice dello Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas a Trento. Ringrazio nuovamente per l’invito il Circolo Trentino per l’Architettura Contemporanea, che ha organizzato l’evento e registrato la serata: è stato uno degli interventi che mi sono più divertita a prepararenegli ultimi anni e condivido volentieri le slide con voi. Come sempre, alcune delle mie slide sono un’astronave e una banana, quindi spendo due parole per raccontare di che cosa ho parlato.
L’Architettura nell’Era Digitale
Trento, 31 ottobre 2019. Circolo Trentino per l’Architettura Contemporanea
Digitale
agg. [dall’ingl. digital, der. di digit (dal lat. digĭtus «dito») «cifra (di un sistema di numerazione)»].
– In elettronica e in informatica: qualifica che, si dà ad apparecchi e dispositivi che trattano grandezze sotto forma numerica, in contrapposizione ad analogico.
Mi ha sempre affascinato come le principali definizioni di “digitale” (quella che trovate sopra è presa banalmente dal dizionario Treccani) si pongano in rapporto antitetico e contrapposto alla sfera analogica. Nel provare ad approfondire il rapporto tra architettura e digitale, questa contrapposizione è evidentissima e spesso si traduce in un dualismo quasi ideologico.
Questo mi ha fatto riflettere su una contrapposizione più antica, apparentemente altrettanto fondata, ma forse altrettanto fallace: quella tra naturale e artificiale, e da lì ho deciso di partire con la mia dissertazione.
1. Naturale vs. Artificiale
Si tratta di una contrapposizione che per secoli ha determinato il nostro pensiero, il nostro immaginario, la nostra filosofia e la filosofia progettuale di conseguenza.
Ad un primo esame, la differenza tra artificiale e naturale risulta talmente ovvia da non richiedere alcun tipo di spiegazione.
Tuttavia, quando si prova a identificare dei parametri oggettivi che distinguano i due reami, diventa chiaro che la distinzione è forse molto meno oggettiva di quanto si potrebbe pensare.
Tra i miei autori preferiti, il filosofo e biologo francese Jacques Monod imposta il ragionamento in termini che ci sono particolarmente favorevoli per arrivare a ragionare in ultimo su ciò che ci riguarda, ovvero la differenza tra reale e digitale.
Nei suoi ragionamenti, e in un’epoca in cui non era così banale parlare di intelligenza artificiale e deep learning, il premio nobel per la medicina si domanda come potrebbe arrivare a spiegare questa differenza ad una macchina, ad un robot potremmo dire, e prova ad individuare questi parametri oggettivi.
«Il primo passo consisterebbe nella
formulazione di semplici criteri strutturali
vale a dire nell’assunzione che gli oggetti artificiali dovrebbero distinguersi dai naturali per:
a) la semplicità geometrica delle simmetrie e per
b) la ripetizione delle forme».
Jacques Monod, Il caso e la Necessità
La sua definizione tuttavia trova immediatamente un ostacolo. Se l’algoritmo sarebbe in grado di identificare montagne e fiumi come oggetti chiaramente naturali, e la maggior parte dei nostri manufatti come oggetti artificiali, sarebbe incapace di analizzare in profondità gli elementi cosiddetti naturali senza ritrovare quelle stesse forme regolari che sarebbero appannaggio delle creazioni umane e anche numerosi costrutti naturali apparirebbero molto più simili a ciò che consideriamo artificiale.
Ecco quindi che la maggior parte dei filosofi, da Bacon in poi, ha definito “artificiale” in un modo assai simile a quello che noi definiamo “digitale”: per contrapposizione a ciò che è naturale o, diremmo noi, reale.
Artificiale
non naturale,
prodotto dall’uomo
Si tratta di una buona definizione fino a quando si sta trattando di filosofia: è un postulato, una premessa arbitraria sulla base della quale possiamo costruire il resto dei nostri ragionamenti. Ma un postulato per definizione è un atto di fede, un assunto non oggettivo, e non soddisferebbe un algoritmo cui venga data la possibilità di controbattere.
La distinzione è prettamente culturale e, nello specifico, estremamente radicata nella nostra cultura, laddove per “nostra” intendo una definizione profondamente radicata in quel misto che costituisce quella che chiamiamo “cultura occidentale” e, in particolare, profondamente radicata nel nostro background religioso.
Nella Genesi, l’uomo viene creato esplicitamente come entità terza rispetto alla natura e al resto degli animali, su cui gli viene dato il dominio, e il peccato originale segna il primo momento di disarmonia tra l’uomo e la natura: i progenitori si rendono conto di essere nudi solo dopo aver mangiato del frutto proibito ed è dal loro nascondersi che Dio si accorge della loro trasgressione.
E anche laddove qualcuno volesse imputare alla moda la colpa di tutto, il testo è abbastanza chiaro nel rimarcare che l’edilizia è il terzo peccato capitale, dopo la disobbedienza e l’omicidio.
Siamo quindi culturalmente abituati a considerare l’uomo qualcosa di separato ed estraneo alla natura, senza alcuna giustificazione oggettiva che non sia culturale, religiosa o morale.
Anche ogni definizione di uomo è destinata a dimostrare la propria fragile soggettività.
Uomo:
essere vivente culturale.
– l’unico essere naturale capace di ereditare caratteristiche acquisite.
Se è vero che l’uomo può essere definito un essere vivente culturale, ovvero un essere che eredita non solo i propri tratti genetici ma anche le attitudini e le conoscenze degli altri esseri che lo circondano o con cui in qualche modo viene a contatto, che si tratti di contatto diretto o indiretto, l’etologo austriaco Konrad Lorenz ha ampiamente dimostrato che l’uomo non è l’unico animale ad avere queste caratteristiche.
La distinzione tra naturale e artificiale è, quindi, una distinzione che appare totalmente oggettiva ma che, nella realtà dei fatti, è un preconcetto culturale fragile e fallace.
Le conseguenze di questa distinzione, sul nostro modo di concepire le città, sono state a lungo tempo tragiche e solo di recente si sta ricucendo quella frattura creatasi tra lo spazio abitato e l’ambiente naturale.
In uno dei suoi saggi sull’influenza dei media e del virtuale sull’architettura di oggi, Toyo Ito prova ad analizzare ciò che determina la separazione tra naturale e artificiale all’interno di una città e individua due fattori principali:
- la rigida suddivisione tra interno ed esterno;
- la creazione di vie di comunicazione e di trasporto artificiali.
Sono caratteristiche che dovremo tenere a mente quando proveremo ad analizzare le caratteristiche dello spazio digitale, in opposizione a quello cosiddetto reale.
Per il momento, ci si accontenta di rilevare come questa suddivisione, e la contrapposizione da cui scaturisce, abbia generato gran parte dei problemi che oggi vengono posti sotto ai riflettori dal movimento ambientalista e siano alla radice della scarsa vivibilità di alcuni tra i più fiorenti insediamenti del nostro secolo.
Italo Calvino tentava di avvertirci, insieme a molta fantascienza sua contemporanea, quando scriveva di Teodora tra le sue Città Invisibili.
Così almeno, gli abitanti di Teodora credevano,
lontani dal supporre che una “fauna” dimenticata si stava risvegliando dal letargo.
Le sfingi, i grifi, le chimere, i draghi, gli irocervi, le arpie, le idre,
i liocorni, i basilischi riprendevano possesso della città.
2. Artificiale vs. Antropizzato
Oggi si tenta di ricucire questa frattura e lo si fa parlando di architettura biodinamica e città biofiliache, anche sotto l’influenza di città nell’estremo oriente che sperimentano in prima linea tutti i giorni l’impossibilità di sottrarre terreno alla natura, per quanto la spinta imperialista dell’uomo possa provare a farlo. Si parla quindi di antropizzato, più che di artificiale in contrapposizione a naturale, ovvero di quegli ambienti in cui si riconosce con particolare evidenza la mano dell’uomo.
Il dubbio è comunque quello che sia troppo tardi per arrestare completamente un processo distruttivo ormai giunto ben oltre il punto di rottura.
«Una Città Biofiliaca … è una città che mette la natura al primo posto nella sua progettazione, pianificazione e gestione;
una città che riconosce il bisogno essenziale di un quotidiano contatto umano con la natura,
al pari del grande valore ambientale ed economico che la natura e i sistemi naturali forniscono alla città».
(Timothy Beatley)
Se la frattura sembra quindi ricucita, tuttavia, il sospetto è che non si tratti di un ritrovato approccio olistico alla realtà, ma che semplicemente ci si stia riappacificando con la natura perché è comparso un nuovo nemico, un’altra entità da considerare “altra” rispetto a ciò che siamo noi: la realtà digitale.
3. Reale vs. Digitale
Eccoci quindi al problema principale che ci attanaglia, ovvero che cos’è il digitale e se è davvero un problema che ha qualcosa a che fare con l’architettura.
In questo, come direbbe il mio collega game designer Gabriele Gallo, abbiamo un problema sin dai tempi di Parmenide: se esiste solo ciò che è, il digitale è o non è? Non è palpabile e possiamo quindi considerarlo come un disturbo, un rumore di fondo, qualcosa di accessorio all’ambiente costruito?
La questione è decisamente meno semplice di così ed è chiaramente la nuova frontiera del dilemma esistenziale, dopo che a lungo ci si è concentrati sul confine tra naturale e artificiale.
In questo senso trovo particolarmente significative le scelte prese da Hollywood in alcuni tra gli ultimi prodotti di fantascienza: se la storia di Ghost in the Shell era una storia che riguardava il confine tra umano e androide, la nuova storia è diventata una storia sulla memoria: se il primo Blade Runner aveva temi centrali che dovrebbero essere noti a tutti, la nuova storia porta in primo piano un ologramma, un’intelligenza artificiale.
Lo stesso si può dire dell’ambiente costruito, delle nostre città: lo strato digitale, che sia inserito da progetto o da esigenze di marketing, o semplicemente portato dagli utenti con i loro dispositivi elettronici mobili, è uno strato che non è più possibile negare.
«Ormai ci muoviamo in due città parallele. La città materiale è una città supportata dalla sua esistenza fisica, dai suoi oggetti, e siamo intimamente abituati a lei sin dai tempi più antichi… Ma negli anni ‘80 ha fatto la sua comparsa una città fenomenologica, insieme all’improvviso sviluppo di una società permeata dai mezzi di comunicazione digitale… È un città priva di gerarchia, che estende la sua topologia nello spazio e nel tempo… Queste due città sono emerse come le due facce della stessa medaglia e, naturalmente, non possono più essere divise».
Toyo Ito, Tarzans in the Media Forest
Il mondo digitale cambia radicalmente la nostra percezione delle città sotto almeno due punti di vista:
- in termini di navigazione, l’esperienza dell’ambiente costruito è simile a quella di un labirinto multidimensionale, in cui ogni direzione è possibile;
- l’ambiente costruito è denso informazioni, un rumore di fondo che potremmo chiamare inquinamento digitale, al pari dell’inquinamento luminoso e di quello acustico;
- assistiamo ad una contrazione delle distanze, sia in termini di comunicazione che in termini di esperienza: il mistero che accompagnava alcuni spazi è ormai dissolto dalla possibilità di accedere a qualunque immagine in qualunque momento.
Ma il mondo digitale, analizzato dagli occhi di un maestro dell’architettura come Toyo Ito, ha delle caratteristiche che non possono non suonare familiari ad un architetto:
- l’omogeneità, simbolicamente espressa dal concetto di “spazio universale” di Mies van der Rohe, è una caratteristica principale dello spazio digitale: tutti hanno accesso allo stesso spazio, negli stessi termini e con le stesse regole;
- lo spazio digitale è traguardabile, sposando il principio della trasparenza tanto caro a Walter Gropius e Le Corbusier;
- si tratta di uno spazio costituito da un flusso costante e inarrestabile di dati, la cui liquidità non può che ricordare Siegfried Giedion e la sua gestione del complicato rapporto tra interno ed esterno, un rapporto che come abbiamo visto è cruciale nella distinzione tra naturale e artificiale;
- la relatività e la frammentazione, in apparente contrapposizione all’omogeneità dello spazio universale, sono un’altra caratteristica dello spazio digitale: per quanto tutti abbiano accesso allo stesso spazio, la percezione della realtà che traspare da questo spazio è estremamente soggettiva e frammentata, un collage che ha sempre affascinato le avanguardie.
4. Spazio come narrazione e come esperienza
Se lo spazio digitale non è quindi troppo diverso dallo spazio come gli architetti sono abituati ad inseguirlo, qual è l’aspetto più problematico della sua sovrapposizione ad uno spazio digitale?
Una delle principali chiavi di disarmonia tra i due spazi riguarda l’impostazione di un progetto architettonico come la creazione di uno spazio che accompagni l’utente in un’esperienza, che costituisca una narrazione. Il digitale distrugge questa narrazione, costituendo uno spazio permeabile e superimposto le cui regole sono dettate da un sistema totalmente disgiunto da quelle dello spazio architettonico.
È necessario quindi riprendere le redini della narrazione dello spazio e, per farlo, occorre abbandonare l’idea dello spazio architettonico come narrativa lineare, in cui è il progettista a dettare le regole e le convenzioni di utilizzo. Bisogna concedersi una riflessione sulla narrativa non lineare e sulle sue varie tipologie, argomento che come alcuni di voi sapranno mi è capitato di approfondire in relazione alla scrittura di La sfida del BIM, proprio con Gabriele Gallo.
Da lui ho imparato che esistono fondamentalmente quattro tipi di narrativa non lineare:
- la narrativa emergente, in cui l’assenza di regole determina la possibilità dell’utente di costuire ciò che desidera;
- il labirinto, ovvero la possibilità di plurime scelte con un’estrema pluralità di scenari e di risultati;
- il labirinto lineare, ovvero l’illusione di un labirinto, all’interno del quale però le scelte sono obbligate e il percorso è unico;
- il filo di perle, ovvero il disegno di una serie di labirinti concatenati, all’interno dei quali l’esperienza è libera ma che confluiscono in un flusso di narrazione controllato.
La narrativa emergente è la condizione in cui si trovano oggigli utenti digitali all’interno di spazio che non tengono conto di quello che Toyo Ito chiama il corpo virtuale, ovvero una totale assenza di regole e di esperienza che li appaghi, e la risultante distruzione di ogni spazio.
Il labirinto lineare è il massimo dell’integrazione tra spazio digitale e spazio fisico cui si assiste oggi, ma ha una possibilità di successo solo laddove è condivisa tra progettista e utente una funzione dello spazio incentrata alla narrazione. Si veda ad esempio l’utilizzo dei beacon negli spazi museali.
Il filo di perle è tuttavia un concetto che mi è molto più caro e ci sarebbe necessità di un ragionamento profondo circa il ritmo di un susseguirsi di spazi digitali, come Luigi Moretti fece per il susseguirsi degli spazi fisici e le loro suggestioni nell’ambito del design computazionale.
«Siamo fatti di due corpi:
Uno reale, che vive nella città materiale,
E uno virtuale, che si muove nel flusso degli elettroni».
(Toyo Ito)
5. Utenti Vs. Progettisti nell’era digitale
Come se il livello di difficoltà non bastasse, i progettisti dell’era digitale si trovano non solo a misurarsi con le aspettative degli utenti digitali, ma anche con nuovi strumenti. E questo è probabilmente ciò che i presenti si aspettavano fosse il centro del mio intervento. Questa volta davvero si può dire che io l’abbia presa larga. Biblicamente larga.
L’ultimo autore che mi è venuto in soccorso è stato, naturalmente, Mario Carpo. Un autore che come sapete mi è molto caro e il cui splendido The Second Digital Turn ho già avuto modo di recensire.
Secondo Carpo, l’evoluzione degli strumenti digitali e la loro strettissima connessione alle attività sia di progettazione che di costruzione avrà delle conseguenze straordinarie nel nostro modo di vedere e sperimentare l’ambiente costruito. Per quanto sia sempre problematico provare a indovinare il futuro, gli azzardi di Carpo sono estremamente interessanti su diversi fronti:
- l’evoluzione degli strumenti di progettazione ha sempre determinato un’evoluzione delle forme dell’architettura: il Rinascimento non sarebbe stato lo stesso senza prospettiva, il Barocco non sarebbe stato lo stesso senza compasso, il Movimento Moderno non sarebbe stato lo stesso senza cemento e l’architettura contemporanea non sarebbe stata la stessa senza spline, ma stiamo assistendo ad una tale evoluzione negli strumenti di calcolo che la spline, una forma di compressione e razionalizzazione delle forme organiche, è uno strumento obsoleto.
- la decorazione è stata abbandonata per la sua insostenibilità nelle logiche di produzione industriale, ma se l’industria 4.0 davvero prendesse piede questo principio di insostenibilità dell’elaborazione non sarebbe più valido;
- la razionalizzazione delle forme sta cedendo il passo alla mimesi naturale, sulla spinta degli algoritmi di design generativo.
Questo scenario in costante evoluzione, insieme alla costante evoluzione degli utenti cui sono destinati gli spazi dell’ambiente costruito, può risultare disorientante. Ma non posso che ricorrere ad un ultimo autore, a me altrettanto caro, per provare a fornire una bussola in questo mare burrascoso.
«Oggi siamo convinti che si impari una professione intorno ai 20-30 anni e poi si possa trascorrere il resto della nostra vita ad esercitarla… la vita è generalmente suddivisa in due parti: un periodo di apprendimento seguito da un periodo lavorativo. …questo semplicemente non è più possibile, specialmente in un mondo che viene costantemente scosso da nuove tecnologie».
Yuval Noah Harari, Homo Deus: A Brief History of Tomorrow
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