Sul Modernismo
Dedicato soprattutto a chi ha visto una certa mostra… Dal Manifesto di oggi: Arte e modernismo Modernismo, o modernità, o meglio il progetto moderno è, come si sa, per le arti una definizione assai generale (ma anche Rinascimento o Gotico lo sono), coprendo non tanto né solo un’area stilistica ma un autentico radicale, e persino […]
Dal Manifesto di oggi:
Arte e modernismo
Modernismo, o modernità, o meglio il progetto moderno è, come si sa, per le arti una definizione assai generale (ma anche Rinascimento o Gotico lo sono), coprendo non tanto né solo un’area stilistica ma un autentico radicale, e persino utopico, rinnovamento di significati e di intenzioni di un’intera cultura. Come nel caso di quelle definizioni storiche di comodo che utilizziamo schematicamente per capirci, anche il «progetto moderno» ha un suo complesso e lungo periodo di formazione per sfociare tra il 1910 ed il 1939 nel periodo della massima espansione inventiva, anche se certo non della sua massima popolarità. I temi della storia del contesto, la coscienza della continuità e discontinuità dei processi di modificazione insieme alla caduta degli ideali di giustizia sociale e di uso delle tecniche per il bene collettivo progressivamente ne ha messo in discussione negli anni tra il ’45 ed il ’60 principi e metodi. Chiedersi, come Christopher Wilk fa nella bella introduzione allo splendido catalogo della mostra sul modernismo appena conclusasi al Victoria and Albert Museum di Londra, che cosa sia stato il moderno non è, però, come domandare alla fine del XVI secolo, dopo il Sacco di Roma e la Controriforma, che cosa siano diventati ideali e forme del Rinascimento. Non viviamo un nuovo manierismo ma un’epoca di incessante incertezza sotto l’apparenza di una trasformazione permanente. È infatti opinione diffusa che negli ultimi quarant’anni si presenti un processo di «concettualizzazione dell’artificiale» provocata dalle tecnoscienze (e dal tentativo di identificare tecnica e pensiero) ed organizzata in senso planetario dall’economia di mercato e dalle comunicazioni di massa. «L’artista di oggi – scriveva Walter Gropius nel 1919 nel manifesto dell’Arbeitsrat für Kunst – vive in un’era di dissoluzione senza guida». A questa «dissoluzione senza guida» il modernismo ha comunque cercato di fornire una alternativa radicale in bilico tra realismo e nichilismo. Forse è proprio questa la domanda che ci dobbiamo fare anche oggi, quando, dopo aver attraversato il glorioso ciclo modernista, ci troviamo di fronte, almeno da un ventennio, ad un salto storico che ci ha gettato nello stato primordiale di chi non sa come cavarsela in una nuova, diversa e ingestibile condizione globale; noi utilizziamo oggi le morfologie inventate un secolo fa attribuendo ad esse un significato rovesciato, cercando con affrettata concitazione di utilizzarle per un rispecchiamento dell’opaca, cinica, condizione dell’attualità, rinunciando (o forse non essendo storicamente in grado) a costituire, rispetto ad essa, una distanza critica capace di alimentare positivamente almeno le nostre pratiche artistiche. È quindi decisivo domandarsi, all’inizio del nuovo millennio, in che modo noi viviamo l’avventura del «modernismo», se e perché essa ci pare conclusa, oppure al contrario si tratta di agire (con autocritica) per mezzo del progetto moderno, o se invece la compiuta realizzazione della modernizzazione sociale abbia rivelato appieno le contraddittorietà e possibilità che le arti erano riuscite a mettere in evidenza. La discussione intorno alla permanenza o al tramonto della validità del modernismo si è prodotta quasi quarant’anni or sono quando si sono confrontate le tesi intorno al progetto moderno (Habermas) ed alla condizione postmoderna (Lyotard). Ma il confronto è tra le due nozioni disomogenee di «progetto» e «condizione». S e è vera la descrizione di Lyotard del sorgere di una nuova condizione, la proposta di perseguire criticamente la tradizione illuminista di Habermas non contraddice tale descrizione ma rappresenta un progetto che si costituisce come un atto di fiducia nella capacità della società intorno alla possibilità di un suo agire comunicativo in grado di utilizzare positivamente e nell’interesse collettivo le nuove condizioni. Che cosa dire quarant’anni dopo tale dibattito? Si potrebbe affrettatamente concludere che la condizione postmoderna (assumiamo questa definizione di comodo) si è tanto dilatata da invadere la quotidianità del globo senza produrre un proprio progetto, anzi, facendo del rifiuto della progettualità come prospettiva ideale una propria ideologia, ma anche spiegare il rigetto del modernismo in quanto rappresentazione radicale del futuro collasso dell’idea stessa di società, cioè ancora come spettacolo di una condizione piuttosto che come progetto. O ggi la base sociale dell’artista è tanto presente da costituire per esso un terreno a cui egli è in generale solidamente incollato e quindi ha perduto nei confronti della società ogni capacità di costruire distanze critiche capaci di essere per essa materiali per indicazioni di alternative. Ai tentativi modernisti di costruire un laboratorio di tali indicazioni si è sostituito il rispecchiamento delle attese del pubblico nei confronti della categoria degli artisti ridotti a creativi. Bisogna anche dire che certe tesi si prestano più a spiegare il contributo al modernismo delle arti visive (ed anch’esse solo in parte) piuttosto che quello dell’architettura; il livello di differenziazione delle esperienze delle arti visive rispetto a quelle dell’architettura è assai più alto tanto che la loro riconduzione ad un’idea di modernismo è certamente più difficile. L’essenza di quel «movimento moderno» resta comunque la nobile illusione che tecnica, produzione e valore d’uso delle cose fossero la piattaforma possibile di una solidale liberazione collettiva: oppure, diciamo noi oggi, il suo fantasma rovesciato di senso.