Per il centenario di Scarpa
Dal Manifesto di oggi (non del tutto condivisibili le opinioni, ma almeno se ne parla). Frammenti per dare forma all’irresolubile – Maurizio Giufrè Anche la storia dell’architettura non sfugge alle strategie del marketing: è una considerazione che si riaffaccia guardando alle celebrazioni del centenario dalla nascita di Carlo Scarpa, annunciate come eventi «senza precedenti per […]
Frammenti per dare forma all’irresolubile – Maurizio Giufrè
Anche la storia dell’architettura non sfugge alle strategie del marketing: è una considerazione che si riaffaccia guardando alle celebrazioni del centenario dalla nascita di Carlo Scarpa, annunciate come eventi «senza precedenti per un architetto contemporaneo». La regia ha distribuito ogni manifestazione in più luoghi e nel corso di diversi mesi, assecondando la prassi della kermesse culturale, che misura il suo successo nel numero dei visitatori e nella frequenza con cui se ne occupano i media. Dovendo scegliere, l’occasione di maggior rilievo appare quella rappresentata dall’apertura del «Centro Carlo Scarpa» a Treviso, nel convento di Santa Margherita, dove di recente si è trasferito l’Archivio di Stato. Qui, al piano terra è stata allestita una stanza con pochi disegni del grande architetto veneziano, collocati dentro alcune vetrine illuminate al neon, ma le condizioni microclimatiche rendono l’ambiente di scarsa qualità. Un’altra sala è dedicata alla consultazione mentre una terza custodisce, dentro alcune cassettiere i circa trentamila disegni che lo Stato acquisì nel 2001 dal figlio dell’architetto, Tobia, nel corso di una azione congiunta con la Regione veneta. I disegni per la Tomba Brion. Per arrivare al risultato di organizzare un simile spazio – che avrebbe dovuto rispondere all’eccellenza degli studi e della conservazione ma non riesce nel suo intento – non era necessario scomodare un architetto di successo come Umberto Riva. Dunque, se alla città di Treviso spettava il compito di assumere un ruolo di baricentro della rete archivistica dedicata a Carlo Scarpa, guardando a quanto è stato fin qui realizzato sono molte le perplessità. Nel frattempo, siamo in attesa di vedere realizzata la galleria che sarà allestita all’interno del Museo Maxxi di Roma, quando questo sarà terminato: vi verrà trasferita – secondo quanto si è impegnato a fare Pio Baldi, della direzione generale per l’architettura e l’arte contemporanea del ministero per i beni culturali – una selezione dei trentamila disegni, e inoltre la catalogazione e la pubblicazione dell’intero archivio di Scarpa. Intanto, però, un primo segmento dell’inventario generale è stato già pubblicato: riguarda i disegni per la Tomba Brion a Santa Maria di Altivole (Electa, 2006), ma anche in questo caso l’esordio editoriale del Darc non è tra i più riusciti, perché i disegni sono ridotti al formato di francobollo o impaginati con tagli assai disinvolti, tanto da fare pensare che sarebbe stato meglio rinunciare alle immagini invece di piegarsi all’ibrida soluzione di un cataloghetto. Non tutto quanto si trova distribuito nelle varie tappe della kermesse dedicata a Scarpa, tuttavia, è segnato dalla stessa approssimazione, né dall’intento pubblicitario istituzionale: a Verona, infatti, il catalogo titolato I disegni di Carlo Scarpa per Castelvecchio (edito da Marsilio e dalla Regione Veneto, curato da Alba di Lieto) racconta con rigore e con passione, attraverso più di seicento fogli di progetto, la più «indagata» tra le opere dell’architetto veneziano, del quale vengono rese chiare, con attento scrupolo filologico, tutte le fasi del complesso iter progettuale. Oltre al corpus dei disegni, cronologicamente ordinati, il catalogo contiene un saggio esemplare di Licisco Magagnato, il giovane direttore nonché eccellente funzionario che nel 1957 a Verona riordinò criticamente le collezioni dei musei cittadini e avviò il programma di restauro delle loro sedi. Il riuso storico di beni antichi. Fu in occasione della mostra titolata Carlo Scarpa a Castelvecchio che lo scritto di Magagnato venne pubblicato (Edizioni di Comunità, 1982) e ora, alla rilettura, conserva intatto il suo sapore di viva testimonianza. Fuori del coro dei cultori del postmodernismo, in gran voga negli anni ’80, Magagnato scrisse: «Gli allestimenti museografici di Gardella, di Albini, dei BBPR, di Scarpa, come rilevammo già nel 1958, nel porre la questione dell’accostamento, accanto al bene antico, di un supporto moderno, affrontavano già il tema del riuso del tessuto storico dei centri antichi, nelle loro parti maggiori e minori, in un momento in cui l’urbanistica razionalista non era ancora sensibilizzata al problema». Era una considerazione esplicita, questa, a proposito della dimensione urbana, e dunque sociale, contenuta nell’opera architettonica di Scarpa, a fronte delle riduttive interpretazioni di raffinato design spesso impiegate per neutralizzarne la carica espressiva. Il restauro di Carlo Scarpa per Castelvecchio si inaugurò in occasione della mostra titolata Da Altichiero a Pisanello nel 1958, con il recupero dell’ala della Reggia e del Mastio, e proseguì con l’allestimento della Galleria delle sculture e dei dipinti, per concludersi poi con la nuova sistemazione della statua equestre del Cangrande, tra il fortino napoleonico e le mura medievali, cui si aggiunsero la sistemazione della corte e del giardino, insieme all’allestimento della sala Avena (1973) con lo «squillo» del soffitto blu cobalto. Nei disegni veronesi di Scarpa è visibile, come succede in pochi altri architetti, l’efficacia di un metodo progettuale che rifiuta tanto l’intervento mimetico con le preesistenti strutture murarie o spaziali quanto quello puramente meccanico di contrapposizione. Il cauto procedere di Scarpa si realizza piuttosto accostandosi – come notò ancora Magagnato – per successivi «elementi modulati e graduati»: scale, passerelle, pareti o travi. Sono questi gli autentici virtuosismi della sintassi architettonica che esprimono, nella perfezione tecnica e formale del dettaglio, l’essenza della qualità poetica dell’architetto veneziano. Giunto a Castelvecchio dopo la sistemazione della Galleria dell’Accademia e del Museo Correr a Venezia, del Museo Nazionale di Palermo e in seguito a una lunga serie di memorabili allestimenti quali quelli per le mostre su Bellini, su Antonello da Messina o sull’arte cinese, Scarpa rese esplicito il carattere frammentario della sua architettura. La «dispersione delle parti» – secondo le parole di Manfredo Tafuri – che costituisce il carattere mutevole e dialettico dei suoi spazi, si specchia anche nei disegni, dove da una prima soluzione se ne generano molte altre per successive sovrapposizioni di fogli trasparenti. I cartoni colorati, di carboncino nero, di macchie, segni, appunti, scritte e cifre mostrano la complessità di un progetto sempre in divenire tramite continue correzioni, modifiche, cancellazioni. Tanto da autorizzarci a osservare come non ci sia distinzione tra opera grafica e processo produttivo: non a caso Scarpa fece suo il motto di Giambattista Vico Verum Ipsum Factum. La sua architettura è stata e continua ad essere molto fotografata e di necessità le fotografie si integrano con i disegni: sono più di tremila le immagini conservate nella fototeca del Centro Internazionale di Studi di Architettura «Andrea Palladio», e gli scatti di Guidi, Ballo, Roiter, Smith, Guidolotti, Colombo, Zannier, tra gli altri, formano una documentazione indispensabile per comprendere l’opera del grande veneziano. Un chiaro esempio lo fornisce, a Palazzo Barbaran da Porto, l’allestimento dedicato al reportage di Gianni Berengo Gardin realizzato in occasione dell’inaugurazione, nel 1972, della Tomba Brion; non è arrivata a conclusione, invece, la campagna fotografica curata da Italo Zannier inaugurata nel 2004, che doveva documentare sessanta architetture di Scarpa sparse per l’Italia e l’Europa. L’occasione vicentina ci permette in ogni caso di rivedere le immagini di uno straordinario fotografo, Berengo Gardin appunto, alle prese con un’opera tra le più difficili da narrare per immagini e che corredano il saggio di Vitale Zanchettin titolato Carlo Scarpa. Il complesso monumentale Brion (Marsilio, 2006). Il volume ripercorre tutte le fasi della progettazione e dell’esecuzione del complesso funerario ed elenca le possibili fonti da cui è stata tratta l’ispirazione, fonti seminate tra oriente e occidente, che possono avere influenzato l’architetto veneziano. La «vitalità delle forme» – come ci ha insegnato Henri Focillon – si modella nel tempo che le attraversa senza intaccarle, ciò che cambia è l’interpretazione che gli uomini ne danno. Così considerare – come ha scritto Zanchettin – l’architettura di Wright, un «repertorio inesauribile di forme» dalle quali Scarpa si affrancò per averle in modo pieno assimilate, è riduttivo. Piuttosto, è vero che egli subì «traumaticamente» quell’influenza e non potendo plasmare lo spazio rifuggì dal tormentare la materia frammentandola in molteplici e dissonanti elementi. L’esperienza vissuta con Edoardo Gellner nella chiesa del villaggio Eni di Borca di Cadore è indicativa: quando gli venne assegnata quella cavità spaziale, Scarpa si limitò a qualificare gli interni con rara maestria. Uno sguardo fuori dal tempo. La tomba per la famiglia Brion è tra le opere dell’architetto veneziano quella più densa sul piano simbolico e per questa ragione non è stata accolta da tutti i critici. La presenza dell’acqua, ora incanalata in un rivolo che scorre lentamente e ora ferma nella gran vasca dove crescono le ninfee, rimanda alla dualità della vita e della morte. Altrettanto analogica è la presenza degli elementi – costruiti in cemento armato e affioranti dalla terra – del sarcofago, della cappella, del percorso all’interno della recinzione, con la porta a ghigliottina azionata da contrappesi. Ogni parte è omologa all’altra e insieme si danno come frammenti «manipolati con indicibile artificio», secondo quel che ne ha scritto Zevi. Il virtuosismo nell’ingegnare realizzato in ogni singolo dettaglio, in ogni giunto, in ogni snodo per risolvere un passaggio, un ambiente, un’area esterna ha compensato spesso l’anacronismo della dimensione senza tempo che emana l’architettura di Scarpa. È, forse, in questa atemporalità è rintracciabile la fortuna fotografica della Tomba Brion, indagata nel gioco della luce da abili fotografi in ogni suo particolare. Altro luogo dell’architetto veneziano, il Museo Revoltella di Trieste ha allestito al piano terra una piccola sala con le riproduzioni dei disegni di Scarpa, ma soprattutto ha ripristinato, con un nuovo allestimento nella galleria d’arte moderna, il percorso museale a quote variabili. Nel volume titolato Carlo Scarpa e il Museo Revoltella, a cura di Maria Masau Dan e Giovanni Ceiner (edizioni Museo Revoltella, 2006) è descritto il travagliato sviluppo del progetto affidato all’architetto nel 1963 ma ultimato solo nel 1991, tredici anni dopo la sua scomparsa. Alla vista dell’involucro esterno nella sala espositiva dell’ultimo livello, realizzato con tavole di legno in verticale, si immagina di trovarsi di fronte a un rivestimento analogo al béton brut di tante altre sue opere: non è rifinito, è di basso costo, consumato dalla salsedine, in contrasto con le superfici interne intonacate di bianco o tirate a marmorino, e con il rivestimento in pietra d’Istria delle scale. Trieste non è Palermo e l’allestimento museografico del Revoltella non è paragonabile a quello di Palazzo Abetellis (1953-54). Il «commento» – come avrebbe ricordato Zevi – attuato da Scarpa sull’edificio quattrocentesco di Matteo Carnelivari lo mette nella felice condizione di non creare uno spazio bensì aggettivare quello esistente, sensibilizzandolo alla luce, rimodellandolo con materiali poveri oppure preziosi come marmi e metalli lavorati. Proprio in questo antico edificio Carlo Scarpa raggiunge una tra le sue prove più alte, rendendo manifesto come che le sue invenzioni abbiano bisogno di vincoli. «Date a Scarpa un tema bloccato – scrisse lo storico Klaus Koening – apparentemente irresolubile, e vedrete cosa diavolo vi inventa!». Del resto, basta a rendersene conto la raffinata sala di Antonello da Messina, dove l’Annunziata è isolata su un pannello incernierato di teak, così da rendere manifesta la sua inimitabile poetica, ben diversamente da quanto accade nel mediocre allestimento previsto per la recente mostra romana alle Scuderie del Quirinale. Il lavoro sull’acqua e sulla luce. Altri due «temi bloccati» sono rappresentati, per Scarpa, dalla Gipsoteca Canoviana (1955-57) a Possagno e dalla Fondazione Querini-Stampalia (1959-63) a Venezia. I suoi «stratagemmi» ne riscattano la anonima condizione con l’impiego della luce e dell’acqua «lavorati» come fossero materiali alla pari degli altri. Nella Gipsoteca le finestre d’angolo segnano gli ambienti con una luce zenitale che avvolge straniante i calchi di gesso; nella Fondazione l’acqua della vasca nel giardino interno è una presenza conciliante con l’edificio, addomesticata a un uso scenografico quanto il tappeto marmoreo policromo dell’ingresso nel quale l’«acqua alta» fluisce senza allagare. Con la disponibilità dell’intero corpus dei disegni di Scarpa ci si augura che altri argomenti saranno svelati o meglio circoscritti per disporre quanto prima della sua opera completa. E si spera che l’archivio non serva ad alimentare l’«impressionismo critico e storiografico», ma che al contrario – riprendendo l’attualissima tesi di Manfredo Tafuri – serva per procedere oltre: ben al di là delle sue opere, della committenza, delle tecniche per verificare le finalità dell’indagine storiografia, guardando magari a una «azione scientifica che contesti la storia presente». Ludovico Quaroni ricordava come Scarpa fosse il «prototipo dell’architetto indipendente», estraneo agli «inchini o ad altre forme di servilismo». Forse, è proprio partendo da valori etici che la lezione di Scarpa potrà assumere il suo vero significato, o almeno il più urgente per la nostra ricerca storica.