La biblioteca inglese
Curioso che il Corriere si svegli solo oggi, dato che il libro è in giro ormai da arecchie settimane. Personalmente l’ho comprato, letto e lo sto anche utilizzando per gli studi sul gotico ed il romantico (cfr mio post precedente) Borges: odio gli inglesi, tranne gli epici e i romantici Stranissima, come c’è da aspettarsi, […]
Curioso che il Corriere si svegli solo oggi, dato che il libro è in giro ormai da arecchie settimane. Personalmente l’ho comprato, letto e lo sto anche utilizzando per gli studi sul gotico ed il romantico (cfr mio post precedente)
Borges: odio gli inglesi, tranne gli epici e i romantici
Stranissima, come c’è da aspettarsi, la «biblioteca inglese» di J. L. Borges. Le sue lezioni di letteratura inglese tenute all’Università di Buenos Aires nel 1966 e ricostruite dalle registrazioni degli studenti riservano più di qualche sorpresa. Sembrano una scorribanda di idiosincrasie, esclusioni clamorose, scelte e accentuazioni del tutto personali, salti spericolati. Attratto lo era stato fin dall’infanzia: il padre, che parlava inglese in famiglia, gli forniva una biblioteca illimitata di testi in quella lingua di «contadini germanici», che diventa chiave alta di accesso alla cultura, «per decifrare mondi invisibili»; e per tutta la vita Borges intrattiene un rapporto privilegiato con quella letteratura, traducendo, scrivendo prefazioni, usandola per raffinati pastiche letterari e insegnandola all’università per una dozzina d’anni. Qui ha modo di liberarsi di ogni remora: insegna per il piacere di insegnare le opere che predilige, facendo partecipare e leggere gli studenti, e non si fa scrupolo di modellarle a suo modo, citando a memoria, rendendole talvolta non dico irriconoscibili – questo no – ma del tutto «borghesiane». Sette delle venticinque lezioni sono dedicate all’Alto Medioevo, all’anglosassone, che neppure sappiamo se fosse davvero inglese (il termine «inglese antico» è una forzatura patriottica tardo-ottocentesca: erano due lingue totalmente diverse, ma Borges lo considera una lingua più bella dell’attuale, e quell’epoca migliore della nostra). Ama la vena nordica e germanica (cui dedicò un’antologia), l’epica aspra, con i suoi temi di coraggio e lealtà: è l’«oro antico», diventa una «stanza segreta» in cui ritrovare una realtà superiore; in punto di morte la sua preghiera fu in anglosassone, inglese e spagnolo. Si esalta in minuziose narrazioni del Beowulf, dei frammenti eroici, delle elegie, della poesia cristiana fatta di sogni e visioni; si entusiasma per i kennings , le metafore fisse e ripetitive che sostituiscono i nomi delle cose, i bestiari. Di lì salta al ’700. Non c’è il ’400 di Chaucer, che pure dichiara sommo affabulatore, quando la cultura s’è francesizzata e latinizzata, né la grande stagione elisabettiana, nata da una costola dell’Italia e approdata al grandioso neoclassicismo barocco di Milton, che pure apprezza. Non c’è nemmeno Shakespeare, «il meno inglese dei poeti d’Inghilterra» e quasi uno straniero, che pure Borges altrove considera «autore dell’opera più intensa della letteratura», anzi, alla maniera romantica, «una variazione del Dio infinito che crea», nonostante la sua storia personale di «misteriosa mediocrità» (al punto che lo si sarebbe preferito sventurato…) e il mediocre curriculum di «buon borghese» (che lo avvicina alla natura e al nome stesso di Borges…). Si salta a piè pari a Samuel Johnson, figura che si direbbe poco «borghesiana», ma autore del celebre dizionario, fattosi immortalare in presa diretta dal biografo Boswell come sorprendente e rude eccentrico, e che appare tutt’altro che moderno. Altro momento privilegiato da Borges è quello dei visionari romantici: Macpherson, il contraffattore di Ossian, con le sue aure falso-medievali, Blake, tutto preso da Swedenborg, che svaluta il mondo sensibile e vede l’eternità in un granello di sabbia, e dalle visioni si lascia trasportare in un mondo superiore. C’entra Wordsworth – ma per il suo senso dello spirito che tutto pervade, non per la sua poesia della natura, e molto di più S. T. Coleridge per le sue allucinazioni poetiche, il sogno interrotto e insieme moltiplicato di «Kubla Khan», col quale Borges non smette di riconoscersi, anche per la sua vita dispersiva e sospesa, condotta nell’ombra, capace di dare non una grande opera, ma solo splendidi frammenti. Qui scatta il raccordo, la congiunzione: Coleridge è imbevuto di filosofia e critica tedesca, con lui nella letteratura inglese rispuntano la vena e lo spirito germanici. E dopo, chi se non Carlyle, il più tedesco e conservatore dei grandi pundit vittoriani, e poeti come i pre-raffaelliti o William Morris, gli uni per il medievalismo ritrovato di donzelle e cavalieri stregati, l’altro perché riprende temi germanici e saghe nordiche in tutto un séguito di rifacimenti di poemi epici. Ma diciamo la verità: chi oggi li legge più, almeno con questa partecipazione? L’altro grande vittoriano su cui si sofferma Borges, non per nulla autore di testi intitolati L’altro, lo stesso ovvero Elogio dell’ombra , è Robert Browning, maestro di ermetismo e punti di vista contraddittori, nelle cui opere l’io si scinde e la verità si sfilaccia. Fra dozzine di romanzieri a disposizione, c’è solo un Dickens per così dire a metà, che inaugura il tema moderno dell’infanzia derelitta e della città tentacolare, ma soffre di un eccesso di sentimentalismo e svenevolezza, e Stevenson – non per L’isola del tesoro , ma per i suoi racconti sul doppio e sull’ombra, il suicidio e gli stati intermedi fra vita e morte che, come nel caso di Poe, toccano una nota che affascina Borges. Insomma: si va da Medioevo a riscoperta del Medioevo, dagli anglosassoni a quei vittoriani in cui si rinsalda il filo germanico della tradizione inglese che invece si considera comunemente fertile e ricchissima proprio per la sua mescolanza di radici nordiche e continui apporti «latini». L’argentino Borges ama il primo aspetto, le lettere settentrionali. Ma certo non lo teorizza. Per lui conta il potere di scoperta della letteratura, da trasmettere a studenti e lettori: se un libro appare noioso non va letto, si legge per piacere personale, «la lettura dev’essere una forma di felicità». Le sue lezioni sono così letture il cui fine ultimo è condurre alla lettura: non sistematiche o esplicative, ma narrative e propiziatorie, intese a cogliere l’individualità degli autori e delle trame, spogliandoli d’ogni aura sacrale, sapendo che «tutti gli autori sono un solo autore». Con l’abituale civetteria scrive: «Ho preferito insegnare ai miei studenti non tanto la letteratura inglese – che ignoro – ma l’amore per certi autori, o meglio ancora, per certe pagine, o meglio ancora per certe frasi. E questo basta, mi pare. Ci si innamora di una frase, poi di una pagina, poi dell’autore. Be’, perché no? È un bel modo di procedere». Averne oggi, di «professori» come lui.
Il libro: Jorge Luis Borges, «La biblioteca inglese. Lezioni sulla letteratura», a cura di Martín Arias e Martín Hadis, Einaudi, pp. 332, 24