Ricordando Bergman

I giornali di oggi riportano alcuni articoli di omaggio al grande Ingmar Bergman, che ieri ci ha lasciati. Non potevo non riportarveli, ricordandolo. A domani per articoli dagli altri quotidiani, che sono rimasti indietro nella nobile arte della versione elettronica. Dal Manifesto. Il cinema senza Bergman – Roberto Silvestri Cosa trasforma la notte in luce? […]

I giornali di oggi riportano alcuni articoli di omaggio al grande Ingmar Bergman, che ieri ci ha lasciati. Non potevo non riportarveli, ricordandolo.
A domani per articoli dagli altri quotidiani, che sono rimasti indietro nella nobile arte della versione elettronica.

Dal Manifesto.

Il cinema senza Bergman – Roberto Silvestri
Cosa trasforma la notte in luce? Godard rispondeva, nel dopo Auschwitz: il cinema. E chi meglio di Bergman, il regista svedese morto ieri a 89 anni, ne ha raccontato o taciuto le complesse magie collettive (anche nere) con più istintivo, irritante, contagioso e mai ortodosso estremismo? Non a caso l’autobiografia Lanterna magica è omaggio al pre-cinema, divulgatore secolare di meravigliose cose mai viste. Col cine-occhio, la Persona non sarebbe stata più la stessa, l’arte non più solo letteratura, musica, teatro, pittura… Bergman e il cinema moderno degli anni ’50, partivano da tradizioni sceniche e iconografiche, anche del «muto», illustri (per lui i registi Maurice Stiller e Victor Sjoberg), dalla propria esperienza («per me il cinema è un bisogno, come mangiare, bere e amare»), dalla «soggettività desiderante» e dalle riflessioni di un gruppo di virtuosi-performer (Thulin, Andersson, Ullman, von Sydow, Bjornstrand, Sven Nykvist…) sul suo (fisco a parte) amato paese, che poco ricambiò, sentendosi descritto come «paradiso di nevrotici». Ma la Svezia è «gialla» e «blu»: la claustrofobica tetraggine delle eterne notti invernali e i radianti meriggi estivi di Sorrisi di una notte d’estate, commedia sull’amor sensuale; la patria del divino e del luterano e del suo opposto (dalla fede del Settimo sigillo alla lucidità atea del Posto delle fragole; dalla speranza di La fontana della vergine alla sua decomposizione: L’occhio del diavolo, Luci d’inverno). Poi la fase minimalista che ammaliò Susan Sontag: l’amore e l’arte come microscopi fertili del nichilismo. Silenzio, Persona, La vergogna, Il rito… E, dal ’74 la tv. Trappola di luce vellutata, impressionista e espressionista insieme (vede e reagisce; vede riflette, ricorda e agisce) il cinema cattura macchie, le tracce «emulsionabili» lasciate da prassi, memoria e Storia (simulazione del documentario) o dal loro doppio (simulazione del set-teatro). E trasforma questi detriti mummificati, in avventure epiche della forma, al di là della trama, che può anche non essere epico né d’avventura. Quel cinema moderno ci guidò per sentieri emozionali misteriosi e sconvolgenti, al di là o al di qua della geografia dei generi. Molti, sedotti da Bergman, Oshima, Antonioni, Fellini e Godard, da chi denunciava lo spirituale degradato a slogan da marketing, si dettero al cinema. Che non imprigiona «la magia della vita», ma libera le luci, le ombre, il noir che è dentro e fuori di noi. Non la tragedia della condizione umana, l’angoscia di fronte alla morte, l’amore che slitta in nausea, la follia, la malattia; non un’ «infanzia dolorosa e complicata» come quella di Ingmar, non «l’infinita tristezza del mondo senza Dio», ma tutto questo e altri demoni che inquietano e esaltano i cineasti (anche meno umoristi), visti in un’altra luce, attraverso procedimenti diversi e una tecnologia «che è l’unico mezzo moderno d’espressione»: dentro un primo piano, con un taglio di inquadratura alla Klee, nel silenzio immobile, contro il muro bianco come lama tagliente, nel contrappunto tra due corpi segati…

Addio a Bergman. Nei suoi film, l’incanto e l’angoscia della vita
Arianna Di Genova
Il tormento e l’estasi dell’eros, i segreti inconfessabili della vita, la fanciullezza come scrigno cui attingere senza tentennamenti, il perenne memento mori pur nella teatralità di un pullulare di esistenze che sempre «fingono». Il cinema, il teatro e la tv di Ingmar Bergman hanno raccontato per buona parte del secolo scorso la tragicità della condizione umana. Eppure nei diari (che usciranno nel gennaio 2008 per Iperborea raggruppando quelli del cineasta, della moglie Ingrid e della figlia Maria), Bergman non cerca mai risposte filosofiche alla dimensione della morte ma piuttosto preferisce affidarsi alla realtà «minima», alla cronaca del quotidiano per narrare l’invisibile, ciò che è palpabile e si può materializzare solo nell’arte. Il regista svedese è morto ieri, dopo aver festeggiato il 14 luglio il suo ottantanovesimo compleanno. Se n’è andato in silenzio, chiuso nel suo rifugio sull’isola di Fårö, estremo lembo di terra nordica. Sereno, come ha detto sua figlia Eva. E in questo sfumare del mese, il cinema si trova a piangere due volte (domenica era stata la volta dell’attore Michel Serrault, classe 1928, una carriera folgorante con registi quali Chabrol, Lautner, Blier, Kassovitz). Ingmar Bergman era nato a Uppsala nel 1918, figlio di un pastore luterano – la figura del padre sarà rievocata sullo schermo in Fanny e Alexander ma anche in Conversazioni private – che gli insegnò quella severità e quel rigore che poi trasuderanno in gran parte delle sue immagini. Dopo un esordio nel teatro (amore che non lo abbandonò mai: aveva iniziato bambino a fare rappresentazioni di marionette per i suoi fratelli), approdò al cinema quando un suo manoscritto – Hets, tormento – venne tradotto in film con la regia di Alf Sjöberg, lui stesso in qualità di assistente. Era il 1944 ma Bergman dovrà ancora aspettare qualche anno per avviarsi sulla strada del successo e del riconoscimento del pubblico. Negli anni Cinquanta arrivò la consacrazione con una serie di pellicole che indagavano l’erotismo e che fecero scandalo all’epoca (Monica e il desiderio, Una lezione d’amore) mentre nel 1955 Cannes lo impalmò con Sorrisi in una notte d’estate. Gli anni successivi furono segnati da film-capolavoro come Il settimo sigillo (riflessione senza scampo sulla mortalità e l’intelligenza umana che si scontra con la divinità) e Il posto delle fragole (un lungo e meditato flashback della propria vita da parte di un anziano professore universitario alle prese con un viaggio «a ritroso», impersonato da Victor Sjöström) ma anche da una attività ancora intensa nel campo teatrale. Con la metafora della primavera della vita (le rosse fragole), conquistò Berlino che gli conferì l’Orso d’oro; l’Oscar – il primo di tre – giunse invece nel 1960 con La fontana della vergine, una storia di stupro basata su una ballata medievale, con cui il regista tributava il suo omaggio all’amatissimo Rashomon di Kurosawa. In questi anni, Bergman è al suo quarto matrimonio, è direttore del teatro di Stoccolma e gira Come in uno specchio (altro oscar). Sposandosi con la pianista Kabi Laretei, aveva annunciato un periodo di ritiro dal cinema per studiare Bach e la sua musica. Ma nel 1963 l’assenza venne interrotta da Il silenzio (1963), film su due sorelle che si torturano l’un l’altra in un hotel e l’anno dopo fu la volta di Persona, un’indagine sul sottile confine dell’identità, del sogno e della malattia mentale. «Sono nevrotico ma riesco ad attaccare i demoni al mio carro», confessò prostrato dalla depressione. La sua musa è ora Liv Ullmann, attrice norvegese dalla quale avrà Lynn (saranno otto i figli con diverse compagne) e della quale s’innamorò fra le scogliere dell’isola di Fårö. Il decennio successivo venne inaugurato da L’adultera e continuò sotto le stelle luminose di Sussurri e grida, profilo crepuscolare di quattro donne divise e unite dal dolore. Gli anni Settanta videro un Bergman sofferente, ricoverato in ospedale psichiatrico, incupito dall’angoscia ma amato dalla critica e insignito del Leone alla carriera a Venezia (1971). Il regista era ormai pronto per il suo ritiro dal mondo, lassù, sulle spiagge che lambiscono il mar Baltico. In mezzo, c’è la tv con Scene di un matrimonio, l’horror L’uovo del serpente e nel 1978 l’omaggio a Ingrid Bergman con Sinfonia d’autunno. «Era un mio vecchio desiderio lavorare con lei ma non iniziavo mai una storia. A Cannes, la incontrai per Sussurri e grida, Ingrid mi infilò una lettera in tasca: chiedeva di mantenere la promessa di girare un film insieme». Poi, Bergman dette l’addio al grande schermo. Lo fece con Fanny e Alexander (1982), un tuffo da oscar (ben quattro, tra cui miglior film) tra magie e ricordi nella sua Uppsala. Dopo ci furono solo teatro, tv e il digitale Sarabanda.

La bellezza solare e tenebrosa dei corpi Alessandro Cappabianca
La notizia della morte di Ingmar Bergman, passata la prima emozione, rischia di essere poco più di un evento di cronaca, nel deserto di silenzio che da un po’ di tempo s’era addensato attorno al suo nome e alla sua opera. Ci pare già di sentirli, i commenti: «cinema della spiritualità», il suo, film da allineare in una cineteca ideale accanto a quelli di Dreyer, Bresson e pochi altri. Cavalieri del Sacro, dove il cinema si dimostra capace di superare il suo congenito peccato d’origine spettacolare. Qualcuno al massimo tirerà in ballo la partita a scacchi del Cavaliere con la Morte nel Settimo sigillo, e noterà come partite simili, alla lunga, si finisce tutti per perderle. Ma vediamo: il cinema, pratica di trasformazione dei corpi reali (reali sul set) in ombre e fantasmi (sullo schermo) – il cinema, che offre l’illusione della presenza dei corpi, nel momento stesso in cui ce ne mette sotto gli occhi l’irrimediabile assenza – il cinema, capace di distillare la quintessenza d’un attore o di un’attrice, di un oggetto o di un paesaggio, come in un’operazione alchemica – il cinema, dicevamo, non sa che farsene di filosofemi. Sospetto, anzi, che non esista filosofia, «filosofia del cinema», se non basata sull’evidenza del corpo, sull’illusione della sua presenza. E dell’amore di Bergman per i Corpi, le sue attrici sono lì a dare testimonianza. Inutile fare nomi. Corpi gloriosi, ma tutt’altro che «ideali». Corpi dai quali Bergman era in grado di distillare una bellezza carnale, solare e tenebrosa, meridiana e nordica. Questo era il suo dono, al di là di tutti gli interrogativi sullo «spirito». «Spirito» combattuto, Bergman? Forse, ma lui non aveva mai evitato, fin dall’inizio, il passaggio attraverso i grandi interrogativi della bellezza corporea. Sarebbe sciocco ridurlo (come sarebbe sciocco ridurre Bresson e Dreyer) a regista di «anime» – e tanto più oggi che sul cinema in generale aleggia il pericolo (si, chiamiamolo pericolo, per brevità, benché il discorso sia più complesso) d’una riduzione ad «anime» tout court, ad «anime» nel senso di figurine elettroniche, dove si perde il collegamento col referente, il cordone ombelicale tra corpo e simulacro, quel lavoro della morte che scorre in sottofondo silenzioso dietro le immagini più rutilanti. Il Corpo si sdoppia, tra Liv Ullmann e Bibi Anderson, tra il silenzio dell’attrice (Persona) e il suo vampirismo, molto oltre la metafora di se stesso che ogni corpo d’attore (e specialmente d’attrice) gia è di per sé. Bergman, come Don Giovanni, si è sempre incaricato di risanare l’occhio del Diavolo. Ma sopraggiunge la vecchiaia, certo, il decadimento fisico. Invecchia Liv Ullmann. Invecchia Erland Josephson, complice alter ego. Che succede, allora? Si punta sull’anima, si tenta di nascondere le rughe, le braccia scheletrite, i seni cascanti, le gambe ossute? O si ripiega su altri corpi, corpi giovani, i corpi inespressivi e senza storia di cui oggi come ieri si nutre tanto volentieri il cinema? No. Il paradosso (sublime) dell’ultimo Bergman è questo: mostrare anche la vecchiaia, mostrare il corpo attoriale, che è poi sempre in qualche misura anche corpo proprio, e comunque corpo del cinema, nel suo disfacimento naturale, senza pudori e paure. Senza lamentazioni, comunque, nell’asciutta secchezza della sua decadenza. Al massimo, come in Sarabanda, con il ricorso (discreto) alla musica. Già Emilio Garroni su Filmcritica, in occasione dell’uscita dell’ultimo film di Bergman, l’aveva scritto (e aveva ricordato, in proposito, anche Sussurri e grida): la musica interviene non come sottolineatura melodrammatica, ma laddove le immagini, al limitare dell’ineffabile, non certo per timore o timidezza, rischierebbero di «dire troppo» o in modo troppo esplicito. C’è anche un «silenzio dell’immagine», insomma, cui Bergman non ha mai avuto paura di affidarsi. L’importante, passata l’emozione della scomparsa, è che non ricada su di lui il plumbeo silenzio della critica.

La forma assoluta e bellissima del dolore – Rossana Rossanda
Il vantaggio dell’età non più verde è la memoria. Quella vera, fatta di esperienza personale; non quella mutuata dai documenti. Così, vedendo Sussurri e grida di Bergman e sentendo parlarne come di pochi altri film, vengono in mente le vicende della «critica comunista» o «militante».Proviamo a pensare: dopo la resistenza, Sussurri e grida sarebbe stato accolto, e bene. Uscivamo dai film fascisti con i relativi telefoni bianchi, e non è che il nuovo cinema realista precludesse la scoperta di altri filoni, che ci erano stati vietati, dagli schermi e dalle librerie, per troppi anni. Insomma, era il «politecnicismo» dei tempi migliori, ricezione attiva, non spaventata, non acritica. Poco dopo, con la guerra fredda, Sussurri e grida sarebbe stato coperto di improperi. Non era Stalin che aveva detto all’Achmatova che le poesie d’amore riguardano solo colui che le scrive e quella o quello che le ha ispirate, per cui non dovrebbero essere stampate più che in due copie? Figurarsi una morte di cancro, o cirrosi epatica che sia, con relative angosce familiari. Bergman sarebbe stato additato come l’obbrobrio del cosmopolitismo decadente. E andiamo al ’56: dopo il XX° Congresso, la critica militante avrebbe riaperto il discorso – possiamo giurarlo – in termini di «marxismo creativo». Vedete un po’ cos’è la società svedese, quale isolamento, quale alienazione, quale angoscia. Questo Bergman è grande, fa un’analisi di classe della Svezia e non lo sa. Con il 1968-69 e la nuova sinistra saremmo tornati alla guerra fredda; ben altre gatte ha il proletariato da pelare che non i problemi della vita e della morte, e chi glielo fa dimenticare non è che una carogna socialdemocratica. E oggi? Oggi anche i giovani, i compagni, parlano di Sussurri e grida e se non dicono che è un grande film, dicono che è «assolutamente da vedere». Perché? Qualcuno risponde, come all’epoca del «marxismo creativo», «perché riflette l’angoscia di questa società alienata». Ma è proprio vero? In verità, esso afferra anzitutto per la perfezione formale e la sobrietà della costruzione: per quanto giustamente male possa pensare Ugo Pirro della «critica estetica», senza il modo di dire una cosa, la cosa non è detta, e un film non è un film. Metà della forza di Sussurri e Grida sta nell’uso emotivo, violento, delle sontuose e lente immagini destinate a scoprire, per contrasto, l’insopportabilità delle situazioni-limite, l’agonia di Agnese, l’automutilazione di Karin. L’altra metà è non la denuncia della borghesia – che pure c’è, ed è la parte più debole del film – ma l’impatto con l’irrazionalità della malattia e della morte, della illusione di felicità, della solitudine. Tutte cose che il movimento operaio, rivoluzionario, mette fra parentesi. E con ragione, perché non è né una religione né una filosofia della vita. Il guaio è, semmai, che spesso non sa di non esserlo, e coltiva la tentazione di ridurre ad una sola tranquilla sintesi società e persona, politica e morale: uno fa le barricate ed è risolto, lotta contro l’organizzazione capitalistica del lavoro e, zac, via la nevrosi (c’è poco da ridere, i paesi «socialisti» fingono di crederlo e guai a chi si permette di dubitarne). Duro, ma adulto, sarebbe riconoscere che la condizione dell’uomo, appeso fra vita e morte, questo suo dato biologico, astorico, il residuo indistruttibile di individualità della sua sofferenza, è il limite oscuro che incontra, al limite del suo cammino, una emancipazione politica: la cui forza e missione non sta nel restituire l’uomo alla felicità, ma soltanto (soltanto!) liberarlo dall’intollerabilità della ingiustizia. Poi, viene il resto, e ci sarà sempre qualche Bergman a ricordarlo. Solo che c’è modo e modo di ricordarlo. Quello di Bergman ci pare il più perfettamente reazionario. Nel senso che ormai – assai più che non fosse nel Posto delle fragole – egli fa ormai di tutto ciò che non è natura, pura corruzione. Le vere urla non sono quelle della malata, ma il pianto del prete, delle sorelle, le confessioni di aridità e disgregazione, le sofferenze diventate ferocia reciproca, l’orrore della propria condizione assunta come vizio. Questa è la sola forma in cui l’uomo, come coscienza e storia, si esprime. E nulla sfugge a questo giudizio: dove l’uomo tocca, contamina; marciume sovrapposto alla natura, il cui ciclo, per ineluttabile che sia, è il solo – come Anna – capace di pietà e continuità placata fra vita e morte. È il rifiuto di ogni mediazione attiva, di ogni cultura, di ogni valore che sia altro dal puro lasciarsi ingenuamente andare alla volontà di dio e delle stagioni. Non è reazione, questa? Lo è. Così composta e rivissuta, così fatta realtà in quattro donne (la materia umana più scoperta e dolente) da parerci bellissima – bellissima perché ci investe, come alcuni grandi poeti decadenti, in quella parte di noi che nella crisi profonda e storica della persona è dentro fino al collo, anche se vorrebbe non accorgersene. Bergman lo sa meglio di tutti; visto che di queste sofferenze, assolute, fa un prodotto perfetto, e ce lo vende.
* L’articolo è stato pubblicato l’8 novembre 1973

Un’implacabile «lanterna magica» – Gianfranco Capitta
Muore un monumento, un inventore di spettacolo che è padre del cinema ma che ha il teatro nel proprio codice genetico. E sembra la conclusione di una quieta tragedia, per un uomo che non solo sapeva rappresentare, ma sapeva anche raccontare, se stesso e il proprio fare teatro e cinema. Il ricordo di Ingmar Bergman è unitario, difficilmente districabile tra quello che si è visto sullo schermo, in palcoscenico e sulle pagine incantate (anche quando crudeli) dei suoi libri. Una «lanterna magica» implacabile. È morto il Cotrone vivente del novecento, tanto schivo e appartato nella vita pubblica di regista, quanto intraprendente e «spudorato» nel poco che filtrava del suo privato. Un uomo che a Stoccolma era tutt’uno con il laico Teatro reale di prosa, il mitico Kunglica Dramaten, fino a gestirlo come un feudo privatissimo, quando ne era direttore come quando polemicamente se ne distaccava. Raccontava lui stesso l’effetto meraviglioso che gli procurò quando vi mise piede come spettatore a 9 anni. Ne fece un centro mondiale della scena con i suoi spettacoli rigogliosi e fluenti, asciutti nel linguaggio, esplosivi nei sentimenti. Molti di quei titoli sono passati anche in Italia, non molti ma sufficienti a darne il bagliore della grandezza. Da Ibsen al Festival degli stabili fiorentini, all’Amleto o allo straziante Lungo viaggio verso la notte, o Madame De Sade. Con attori straordinari: le «sue» signore innanzitutto che con modestia passavano con lui dalla macchina da presa al palcoscenico, ad attori rivelazione come lo shakespeariano Per Stormare, che oggi figura sempre nei casting del Kunglica. Spettacoli grandiosi e molto curati si diceva, ma mai «pedanti» anzi di intensa vitalità emotiva. Il ritmo musicale della lingua oscura alla maggior parte del pubblico, accompagnava come fosse una sonata o una autunnale sinfonia quel groviglio di esistenze che era il tema preferito dell’artista. Quasi un terreno naturale per lui, analista di un secolo di cui auscultava con pazienza sussurri e grida, mentre costruiva la scacchiera su cui giocarsi non solo il settimo sigillo, ma anche il definitivo e ultimo. I suoi film avrebbero potuto essere dislocati su un impianto teatrale, e perfino i film per la tv che ne nascevano, che erano nello stesso tempo cinema rigoroso. La sua arte di raccontare era una sorta di fede, di crudele e lucida capacità di introspezione, in sé e negli altri.

Da Liberazione:

Bergman, regista dell’animaAldo Garzia
In quelle giornate di fine giugno, un mese fa, nulla lasciava presagire che fossimo vicini alla morte del maestro del cinema internazionale. Bergman, si sussurrava nei corridoi dei seminari a lui dedicati, stava valutando la possibilità di accettare la proposta che gli era pervenuta di recente da Claudio Abbado: scrivere un libretto d’opera che il direttore d’orchestra avrebbe poi musicato. Sarebbe stato l’ennesimo ritorno sulle scene di Bergman, dopo l’ultimo film Sarabanda (2003). I fan erano del resto abituati alle rentrée del regista de Il posto delle fragole , fin da quando nel 1983 – dopo l’Oscar conquistato con Fanny e Alexander – aveva contraddetto più volte l’annuncio dell’abbandono del cinema per dedicarsi solo al teatro. Non sapeva vivere lontano da palcoscenici, sale di posa, cineprese, direzione degli attori, dimensione della rappresentazione come trasfigurazione della realtà. Quel progetto di lavoro con Abbado, aveva riacceso la mia speranza di poter avere un colloquio con Bergman finalizzato a un libro che da tempo sto scrivendo su di lui, dopo aver dato alle stampe Fårö, la Cinecittà di Ingmar Bergman nel 2001. Volevo chiedergli in particolare dei rapporti con l’Italia: l’amicizia con Federico Fellini, l’exploit del suo cinema nei festival di Venezia, il rapporto con la critica cattolica italiana che lo aveva un po’ adottato mettendo in un cantuccio la cultura protestante del regista de Il settimo sigillo , i tormentati rapporti con Dino De Laurentiis che pure aveva prodotto nel 1977 il suo L’uovo del serpente . Lo staff di Bergman, sempre gentile, rimandava l’appuntamento di anno in anno lasciandomi nella lunga lista di giornalisti che avrebbero voluto incontrare "The genius", lo chiamavano così tra l’affettuoso e l’irriverente, ma che non l’avrebbero mai incontrato (tra questi, a mo’ di consolazione, c’è pure il regista danese Lars von Trier, forse l’ideale continuatore dell’opera bergmaniana, ormai rassegnato a convivere con "il silenzio di Bergman" dopo che lo stesso Bergman si era rassegnato a convivere con "il silenzio di Dio"). Ingmar Bergman, secondo di tre figli, era nato a Uppsala il 14 luglio 1918 e risiedeva nell’isola di Fårö (Mar Baltico svedese) dalla metà degli anni Sessanta. Suo padre Erik Bergman era un pastore protestante, sua madre Karin Akerblom aveva origini olandesi. L’infanzia la trascorre tra un paesino svedese e l’altro, dove Erik Bergman è trasferito fino all’incarico di cappellano nella parrocchia di Hedvig Eleonora a Stoccolma. Non era infrequente, come punizione per le intemperanze da bambino irrequieto, che venisse rinchiuso nell’armadio di casa dove finiva per maturare l’avversione per il padre e la rigida educazione religiosa. A dieci anni riceve in regalo il primo, rumoroso proiettore («Quella zoppicante macchinetta fu il mio primo apparecchio di stregoneria», ha scritto Bergman). Ancora prima aveva inventato la sua "lanterna magica": una cassettina di metallo dove proietta immagini con la lampada a carburo (quella stessa lanterna compare in Fanny e Alexander). Laureatosi in Storia della letteratura con una tesi su August Strindberg, il padre del teatro moderno svedese, Bergman si impegna nel teatro studentesco di Stoccolma e a diciannove anni va a vivere da solo ribellandosi definitivamente al contesto famigliare. Dopo alcune esperienze come aiuto regista all’Opera di Stoccolma e in piccole compagnie teatrali, nel 1942 è assunto dallo Svenska Filmindustri come sceneggiatore e aiuto regista grazie al successo di una pièce teatrale ( La morte di Kasper ) scritta da lui stesso. Il primo film da regista è Kris (1945), accolto freddamente dalla critica e dal pubblico. Negli anni precedenti aveva collaborato con Gustaf Molander, Alf Sjöberg e Victor Sjöström, maestri del cinema di Svezia. E’ con Sorrisi di una notte d’estate (1955), premiato nel festival di Cannes del 1956, che esplode in tutto il mondo il "fenomeno Bergman", seguito a ruota da due capolavori: Il settimo sigillo (1956) e Il posto delle fragole (1957). Da quel momento in poi il regista diventa la pietra miliare del teatro e del cinema di Svezia, che pur vantando una tradizione di primo piano in Europa non avevano mai avuto una proiezione internazionale paragonabile all’opera bergmaniana. Con stupefacente produttività, il regista alterna in tutti gli anni Sessanta e Settanta il lavoro invernale in teatro con quello estivo sui set cinematografici, teorizzando e praticando la commistione di generi (non rinuncerà mai a lavorare per la radio e la televisione, smentendo quanti teorizzano l’inconciliabilità tra teatro, cinema e televisione). La minuziosa ricostruzione cronologica della biografia e dell’opera bergmaniana si deve di recente alla svedese Birgitta Steene (professoressa emerita di Storia del cinema scandinavo presso l’Università di Washington), autrice del monumentale volume A reference guide (Amsterdam University Press, 2005) dove sono raccolti dati e riferimenti critici sull’intera produzione artistica bergmaniana in più di sessant’anni di carriera (teatro, cinema, televisione, radio, opera, letteratura). Bergman è costretto a separarsi per lunghi periodi dalla Svezia tra il 1976 e il 1981. Il 30 gennaio 1976 il regista è al Dramatiska Teatern di Stoccolma. Sono iniziate le prove di Danza di morte di Strindberg. All’improvviso arrivano in teatro due poliziotti che gli impongono di trasferirsi in commissariato, dove apprende di essere indagato per "evasione fiscale". A causa di una profonda crisi depressiva, il regista è ricoverato per tre settimane nel reparto psichiatrico dell’ospedale Karolinska di Stoccolma. La querelle burocratica dura cinque anni, al termine dei quali Bergman si mette in regola come contribuente pagando 180 mila corone. Un disattento fiscalista, cui aveva delegato le dichiarazioni dei redditi, e l’inflessibile burocrazia svedese lo avevano costretto all’esilio volontario. Di qui il rapporto controverso tra Bergman e la Svezia. Il lavoro di Bergman per il cinema si conclude provvisoriamente con Fanny e Alexander (1982), che segna il suo ritorno definitivo in Svezia, ma negli anni successivi il regista continua a produrre incessantemente per radio e televisione di Svezia oltre che per il Dramatiska Teatern di Stoccolma, dov’era entrato per la prima volta nel 1951 (nel 1963 è nominato direttore). Alcuni dei suoi film televisivi degli anni Ottanta sono proiettati anche al cinema ( Dopo la prova , Il segno ), mentre continua a scrivere racconti e sceneggiature per altri registi. Nel 2002 torna al lavoro per la televisione svedese con Sarabanda , girato in digitale a riprova della duttilità artistica e della continua ricerca tecnica di Bergman. E sempre nel 2002 Bergman si è concesso la soddisfazione di inaugurare a Stoccolma la Fondazione che reca il suo nome e custodisce documenti, sceneggiature originali, carteggi, appunti di lavoro e cimeli artistici. Nei suoi libri biografici ( Lanterna magica , Con le migliori intenzioni , Immagini , Nati di domenica , Conversazioni private , Quinto atto tutti editi in Italia da Garzanti), il regista si è raccontato compiutamente dando innumerevoli spunti a biografi e studiosi per ulteriori approfondimenti. Sposatosi cinque volte, padre di nove figli, il regista ha avuto nella pianista Ingrid von Rosen la compagna di vita che ha saputo resistergli accanto più a lungo. Dopo il matrimonio celebrato nel 1971, hanno vissuto insieme fino al 1995, anno in cui il regista è rimasto vedovo. Ultima annotazione. Perché un regista come Bergman, così attento ai tormenti dell’anima e alla relazione tra persone fuori da una dimensione collettiva o sociale, era molto amato anche dalla sinistra? E’ facile rispondere: il suo lavoro artistico ruotava intorno a interrogativi su tutto ciò che la politica, pure quella della Svezia dalle nobili tradizioni socialdemocratiche, troppo spesso finisce per rimuovere in nome di un universalismo che banalizza i sentimenti e le aspettative individuali. Bergman ci ricordava che c’è un limite della politica, un territorio intimo dove solo ognuno di noi può agire.

 

Biografia di successi, tra genialità e sensi di colpa – Boris Sollazzo

Ce lo immaginiamo seduto un po’ scomposto, irriverente ma signorile, con quello sguardo obliquo ma penetrante, che scruta in faccia la morte. E la fa vincere, dopo averla raccontata per anni con le sue immagini: sbaglia apposta la mossa che lo mette sotto scacco. Dev’essere andata così a Ingmar Bergman nell’isola baltica di Fårö, come ne Il settimo sigillo (1956). Il maestro, il genio, che ha riscritto il cinema, ne ha reinventato l’immaginario riportandolo ai temi più classici e tragici, non c’è più. Ci ha lasciato all’età di 89 anni dopo aver vinto tutto il possibile e anche di più. «Peccato, confessione, punizione, perdono e grazia». Erano le parole d’ordine del suo cinema, anzi del padre, pastore protestante (il 14 luglio del 1908 Ingmar nasce in un convento a Uppsala) inflessibile guida e presenza costante, nella sua vita e nella sua arte sempre in bilico tra depressione e repressione. Lo seguì ovunque nell’infanzia, se ne liberò nel 1936 per scappare dal destino di sacerdote e cercare la realizzazione dei suoi talenti a Stoccolma. Lo rappresenterà in ben tre film: Fanny e Alexander (1982), che gli valse il terzo Oscar, Con le migliori intenzioni (1992), Conversazioni private (1996). Sapeva raccontare con epica semplicità, né retorico né minimalista: il particolare con lui diventava universale. Le reazioni alla sua morte ne riconoscono tutte il valore. Un regista straordinario. Per il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, «un protagonista indiscusso della cultura del nostro tempo». Un intellettuale con una grande «capacità di indagare a fondo e senza condiscendenze sui grandi interrogativi etici legati alla condizione umana». Dopo un inizio difficile, personale e professionale, gli anni Cinquanta lo consacrano: ha già tre mogli e qualche insuccesso alle spalle. I suoi amori saranno anche le sue attrici feticcio, donne a cui dedicherà il suo cinema: Harriet Andersson, Bibi Andersson, Liv Ullman. Si circonda di un gruppo che diventerà storico, quello dello Stadsteater di Malmoe: Tunnel Lindblom, Max Von Sydow, Ingrid Thulin, Bibi. L’inizio dell’epopea bergmaniana, enciclopedia di umanità, comincia, forse, con Monica e il desiderio (1953) che dà scandalo per l’insolente sensualità dell’attrice Harriet Andersson. Nel 1955 realizza Sorrisi in una notte d’estate , Palma d’Oro, del 1956 è Il settimo sigillo , premio speciale sempre a Cannes. L’Orso d’oro al festival di Berlino e il premio della critica al festival di Venezia giungono grazie a Il posto delle fragole . Successivamente Alle soglie della vita e Il volto ricevono il premio come miglior regia rispettivamente a Cannes e a Venezia, mentre nel 1960 La fontana della vergine gli fa conquistare il suo primo Oscar. Nel frattempo si sposa una quarta volta, diventa direttore del teatro centrale di Stoccolma, si avvicina alla neonata televisione e realizza Come in uno specchio , primo capitolo di una discussa trilogia religiosa, o meglio spirituale: Oscar come miglior film straniero. Seguono Luci d’inverno (1962 ), premiato a Berlino e a Vienna e Il silenzio (1963 ), uno dei suoi film che diedero più scandalo. Nel 1964, colpito da una grave depressione, scrive Persona ed inizia una relazione con l’attrice norvegese Liv Ullman, dalla quale nasce Lynn ( 1966). Si lasceranno nel 1974. Nel 1978, lo splendido Sinfonia d’autunno lo vedrà dirigere l’ultimo film interpretato da Ingrid Bergman. Gli anni 70 sono anche quelli di Sussurri e grida (1972) e di Scene da un matrimonio (1973). Quasi ironico l’Oscar alla carriera del 1970: firmerà circa metà delle oltre 40 opere della sua filmografia dopo quella data. La morte dell’ultima moglie, Ingrid Van Rosen, nel 1995, nonostante i nove figli (tutti artisti e attori), lo fa cadere in depressione. Si ritira all’isola di Fårö. Questo non gli impedisce, nel 1997, di scrivere e dirigere lo splendido Vanità e affanni o di regalare la sceneggiatura de L’infedele alla sempre amata Liv Ullman (per lui ritirerà il Premio Fellini 2005 dalle mani di Felice Laudadio alla Casa del Cinema, struttura che dal 31 luglio al 5 agosto gli dedicherà un tributo diviso tra Sala Deluxe e Teatro all’aperto). Negli anni 2000, infine, lavora per il teatro e per la tv. Spicca Sarabanda (2005), seguito di Scene da un matrimonio e co-finanziato dalla Rai. «Non c’è nessuna forma d’ arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’ anima», ha detto capendo profondamente quest’arte meravigliosa. E forse anche se stesso.

 

L’eccezione e la regola di un cinema fatto di corpiEdoardo Bruno

Ingmar Bergman ha attraversato tutto il cinema, il "kamerspiele" e il "grand guignol", ha esasperato la messa in scena, il silenzio e il grido; ha guardato attraverso la visione e il pensiero, ha fermato la memoria in immagine, la solitudine, il sesso, l’amore, la paura, il trasalimento. Difficile riassumere questa sua capacità etica ed estetica, questo snodo tra filosofia come riflessione e filosofia come prassi, questo suo percorso kierkegaardiano ed il suo cinema-filosofia, come l’indicibile detto, e l’alone indeterminato che sottende il giudizio. Degli inizi ricordiamo "Monica e il desiderio", cinema nel cinema, una luce che incanta, una foto divenuta l’emblema di un cinema giovane, storia di un amore sbagliato dove, ricorda Nancy, il riferimento al cinema è insistente, con la protagonista che dice «tu sei come un personaggio in un film». E, senza ordine di preferenza, "Il posto delle fragole", "Il volto", "Come in uno specchio", "Persona", "Il silenzio", "Sussurri e grida" fino a "Sarabanda", dove la musica di Bach, come annotava Garroni, iscrive la sua traccia di strategia di senso, diventando la ragione stessa della narrazione e del suo significato. In tutti i suoi film la razionalità e la follia inseguono la strategia del piacere, il ricordo e il sogno, la congiura e la perversione, la letteratura e il teatro. Con "L’uovo del serpente" Bergman si serve del cinema di Weimar, richiama Lang e i cunicoli di Mabuse, per ampliarne i significati, per reintrodurre uno schema stilistico e analizzare, tra fantasia e realismo, l’inquietudine del nazismo in agguato. La catena delle significazioni porta Bergman ai confini delle riflessioni, in una serie di rimandi che, come il nastro di Moebius, danno visivamente l’idea di un correre dall’interno all’esterno, in continuità, alla ricerca del senso. Che è la frontiera segreta, il passaggio semantico dall’immagine alla parola. La parola che "parla" diventa la parola che "vede": «Ho una malattia – scriveva Roland Bartes – vedo il linguaggio». Parola e immagine, suono e visione, si intrecciano, entrano ed escono dalla mente, occupano lo spazio del gesto e dell’interpretazione, scivolano nell’altro reale, si coniugano e si percepiscono. In "Sussurri e grida" come in "Dopo la prova" l’urlo rompe il silenzio e il silenzio evidenzia l’urlo. La teologia del negativo grida contro un cielo ormai vuoto, materializza uno stato d’animo. In un cinema di materiali, come quello di Bergman, si ritrovano i corpi, i segni sono il linguaggio, le tracce le spie di una presenza, i comportamenti le psicologie, i sentimenti le durezze, i rimpianti. L’urlo, l’eccezione e la regola.

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