Renzo Piano a Milano

Dal Manifesto di ieri, due articoli su Renzo Piano e sul suo ultimo progetto di Sesto San Giovanni, in mostra alla Triennale e già presentato in anteprima dal sindaco Oldrini al nostro festival di Buccinasco alla fine di aprile.   (immagine a sinistra: l’aereoporto di Osaka,   Tra cielo e terra la giusta misura di […]


Dal Manifesto di ieri, due articoli su Renzo Piano e sul suo ultimo progetto di Sesto San Giovanni, in mostra alla Triennale e già presentato in anteprima dal sindaco Oldrini al nostro festival di Buccinasco alla fine di aprile.

 

(immagine a sinistra: l’aereoporto di Osaka,

 

Tra cielo e terra la giusta misura di Pianodi Maurizio Giufrè

Non è la prima volta che Renzo Piano presenta in Italia, alla Triennale di Milano, i suoi progetti architettonici, lo fece anche vent’anni fa nella navata della Basilica di Vicenza e nel 2004 a Genova. Nella città veneta puntò sulla trasformazione del monumento palladiano in un efficiente museo, mentre nel capoluogo ligure sostenne la riqualificazione della spianata degli Erzelli: un’estesa area di deposito container che immaginò trasformata in residenze e laboratori per centinaia di aziende hi-tech. Quei progetti sono rimasti sulla carta, mentre oggi Milano gli offre la possibilità di realizzare quello più ambizioso: l’edificazione di una «nuova città» nell’area delle acciaierie Falck a Sesto San Giovanni. Il nuovo in una giusta dose. In un luminosissimo e candido salone, al piano superiore della Triennale, la mostra Le città visibili (fino al 16 settembre), curata da Fulvio Irace, dispiega ogni mezzo per convincere il visitatore non solo della qualità di quanto lo studio Renzo Piano Building Workshop (RPBW) sa ideare in ogni angolo del globo, ma dell’affidabilità del suo processo costruttivo, di cui lo studio va fiero dopo avere realizzato opere ambiziose – dal Centre Georges Pompidou a Parigi al Kansai International Airport a Osaka – sia per il loro grado di innovazione tecnologica sia per la complessità dei programmi esecutivi. La dimensione dell’impegno si coglie subito davanti al grande pannello che esibisce il piano dell’intervento per Sesto San Giovanni, collocato alla fine del percorso espositivo, dopo avere attraversato una quantità considerevole di modelli, fotografie, disegni e pubblicazioni che descrivono la lunga carriera dell’architetto genovese. La «nuova visione della città» di Piano si configura come una più generale soluzione per l’urbanizzazione delle periferie di Sesto, secondo principi che vanno dalla sostenibilità ambientale all’efficienza nei trasporti, al rispetto dei luoghi della memoria collettiva, alla qualità estetica e tecnologica delle costruzioni. Il progetto prevede una vasta edificazione, lungo due assi principali, di «case alte» che toccano terra solo attraverso le loro strutture, immerse in un parco capace di connettere tutto invadendo strade, viali e alcuni resti della fabbrica. Nel suo saggio per il catalogo (Electa) Fulvio Irace paragona la «dimensione sociale» del progetto alle prime sperimentali esperienze dell’urbanistica milanese negli anni del Razionalismo italiano, richiamando quella «inattuale utopia» che sarebbe stata, insieme alla «Città orizzontale», la «Milano verde» di Giuseppe Pagano. Al di là del carattere commerciale e imprenditoriale dell’iniziativa e al di là delle sue giustificazioni storiografiche, davanti ai disegni di Piano si deve riconoscere nella sua proposta per una metropoli quel che Adriano Olivetti descrisse come il «nuovo nella sua giusta proporzione», costituendo una alternativa più credibile, se i programmi saranno rispettati, a ciò che sta accadendo nelle aree centrali di Milano, dove l’euforia della crescita in altezza, fondata sulla discrezionalità del mercato immobiliare e la modifica dei valori normativi della pianificazione, consentirà la serie più stravagante di architetture che la storia della città ricordi. In questa prospettiva è singolare che non sia presente alla mostra il progetto per l’area ex-Fiera, battuto in concorso dalla soluzione del trio IsozakiHadidLibeskind, vincitore poiché sostenuto da un’offerta economica più alta. Un aiuto a comprendere la congenialità del progetto di Piano può venire dalla osservazione dei disegni e del modello della torre del «New York Times» che sta per essere completata a New York, oppure dalla simulazione al computer della «London Bridge Tower» a Londra. Entrambe sono «città in verticale» alte più di trecento metri, composte di piani leggerissimi di vetro e acciaio che, ortogonali o inclinati rispetto al terreno, chiudono la tipologia in involucri assolutamente sobri, curati con scrupolo nel rapporto con la strada sulla quale si adagiano delicatamente, ecosostenibili perché impiegano impianti evoluti e componenti di facciata che facilitano la ventilazione. Si direbbe che siano sempre esistiti, proprio lì, nei luoghi in cui sono stati pensati, all’opposto di quanto suggeriscono gli stereotipi «a torre» ai quali oggi si dedicano con impazienza anche le nostre nuove generazioni di architetti, senza riflettere sulle necessità del contesto e sulle sue risorse. Carlo Olmo, nel suo saggio sul lavoro di Piano a Torino, scritto per il catalogo insieme a Michela Comba, ha attribuito all’architetto genovese la capacità di non risolversi in un «manipolatore di simboli», interloquendo con il sapere collettivo, e sapendo governare la «natura processuale dell’innovazione». Dopo la ristrutturazione della fabbrica Lingotto – cominciata con il concorso del 1983 e conclusasi dopo vent’anni – Renzo Piano è oggi impegnato nella realizzazione della torre alta centocinquanta metri, sede del gruppo bancario Sanpaolo Imi destinata alla zona della nuova stazione di Porta Susa. A differenza di quanto avviene a Londra e a New York la sfida non sta nell’«acquisto del cielo», ma nel creare urbanità in un’area in precedenza occupata da fabbriche e caserme. Piano immagina così una complessa stratigrafia che parte dal patio-giardino, incassato sotto il livello della strada, sottostante il foyer, per smaterializzare i volumi della torre che dal basso progressivamente si ispessisce fino ad assumere, dall’ottavo piano in su, la figura di un prisma verticale. L’intenzione è quella di offrire una alternativa a quell’«arrogante simbolo del potere radicato a terra» che il grattacielo ha da sempre rappresentato, e al tempo stesso definire con lo scavo in profondità (già realizzato nell’ampliamento della Morgan Library di New York), il nuovo «spazio civico» dell’architettura, la «città in miniatura» della «res pubblica», come ha scritto nel catalogo Kenneth Frampton. Se si percorre a ritroso l’esposizione milanese – dal disegno urbano di Sesto San Giovanni e Genova fino alle ricerche su tensostrutture e membrane a guscio della fine degli anni ’60, sulla scia della lezione di Frei Otto e Buckminster Fuller – ci si accorge di quanto sia stata lenta la gestazione delle architetture di Piano nella ricomposizione di morfologie e tessuti urbani. La sua città è un organismo fatto di parti da assemblare come qualsiasi edificio: «naturalmente – spiega nell’intervista che compare in catalogo – i pezzi non compongono un’architettura incoerente, ma un organismo in cui riconosci le singole parti». Nulla di virtuale nella sua città. L’insieme dei «pezzi» è la tessitura dell’edificio, ciò che dà espressività e bellezza all’opera attraverso incastri e giunzioni di elementi e che potrebbe essere paragonato al vibrato della musica. In tutta la sua lunga carriera Piano non ha mai ceduto alla ridondanza, al formalismo, alla retorica scultorea che pervade molta dell’architettura contemporanea, anche quando davanti al disordine metropolitano (come ad esempio nel Centro commerciale Bercy 2 alle porte di Parigi, o all’Auditorium a Roma) è ricorso all’«icona monumentale». Secondo Richard Ingersoll questa strategia di Piano si opporrebbe al «metodo mimetico» che contraddistingue, invece, la Menil Collection di Houston o la Morgan Library di New York, dove l’architettura si propone di cucire le parti esistenti della città. Città che, in entrambi i casi, viene considerata come spazio di intensi scambi, luogo fisico e mai virtuale, fragile e vulnerabile perché tessuto di conflitti.

L’architetto sposa la causa della leggerezza – di Lucia Tozzi

Pochi architetti al mondo riescono a costruire musei, auditorium, biblioteche eleganti e confortevoli come quelli progettati da Renzo Piano, dove l’altissima qualità dell’architettura, curata fin nel più piccolo dettaglio, non prende mai il sopravvento sulla funzione dell’edificio. Gli spazi luminosi, equilibrati, armoniosi della fondazione Beyeler di Basilea, della Menil Collection di Houston o del Zentrum Paul Klee di Basilea sono l’antitesi del Guggenheim di Frank Gehry o del Museo ebraico di Daniel Liebeskind, che a furia di storture e feritoie, pieghe e anfratti risultano inallestibili per i curatori e frastornanti per i visitatori. E tuttavia, con l’eccezione del rivoluzionario Beaubourg, concepito insieme a Richard Rogers, nella lunghissima serie dei suoi progetti realizzati o rimasti sulla carta è impossibile rintracciare un’idea forte. Se la grandezza di Piano poggia sul mestiere, sulla capacità di progettare in maniera quasi artigianale gli elementi strutturali delle sue costruzioni, la chiave del suo successo internazionale è la collaudata macchina comunicativa, fondata sul ricorso ossessivo a un sistema metaforico talmente rassicurante da sfiorare la stucchevolezza: i suoi grattacieli, ad esempio, si chiamano più graziosamente «torri» o «città verticali», i frangisole «le foglie», un centro commerciale affogato dalle autostrade in prossimità del Vesuvio «il vulcano buono», la strada principale della Sesto San Giovanni postindustriale «la rambla», gli autobus a energia solare che circoleranno al suo interno gli «Elfi», i celeberrimi «gusci» del Centro Culturale Jean-Marie Tjibaou, in Nuova Caledonia, ispirati alla tecnica costruttiva delle capanne locali, formano un «villaggio», e il progetto per il waterfront di Genova è stato addirittura ribattezzato «l’Affresco». È un vocabolario politicamente corretto ma anche poetico, che attinge alla sfera dell’ecologia e dei valori positivi della vita associata ed è apparentemente comprensibile a tutti, musicisti, collezionisti, gente comune, immobiliaristi e politici. Un linguaggio che sembra offrire a portata di mano l’utopia realizzabile della conciliazione degli opposti, del bene pubblico e privato, di tecnologia ed ecologia, del bello e dell’utile, del colto e del popolare, e tutto grazie alla sapienza eterea e delicata di questo personaggio senza difetti. Non a caso, durante la Biennale di architettura di Londra del 2006, Renzo Piano si è fatto immortalare alla guida di un branco di pecore sul Millennium Bridge: l’immagine mite del pastore in t-shirt corona alla perfezione la sua carriera esemplare, di studente che si è scelto la città più interessante (da Firenze, città-gioiello, si trasferì a Milano, città dell’impegno), i maestri migliori (Albini e Zanuso), che contemporaneamente lavorava a bottega, studiava, occupava la facoltà e andava a schizzare il paesaggio industriale arrampicandosi sui muri di cinta delle fabbriche milanesi, e di architetto che ha ideato il lussuoso palazzo di Hermès a Tokyo ma è orgoglioso dell’esperienza di progettazione partecipata a Otranto negli anni Settanta, che allestisce mostre e scenografie ma progetta con lo stesso impegno l’Aula liturgica per Padre Pio. Ma per portare definitivamente a termine la metamorfosi da nerd a icona dell’architettura, per conquistare quell’aura sacrale di equilibrio che oggi lo circonda, Piano ha dovuto sposare con determinazione la causa della leggerezza. La mostra Le città visibili in corso alla Triennale di Milano chiama direttamente in causa Albini e Calvino, i due più grandi artisti della leggerezza in Italia. Non solo i pannelli, ma anche la rossa trave di Krupp progettata per il Beaubourg, i giunti d’acciaio, gli esili modellini in ferro, le strutture in legno di pero, le sculture mobili di Susumi Shingu, sono sospesi al soffitto esattamente come nell’esposizione di Albini, che lo stesso Piano aveva allestito alla Triennale nell’autunno scorso. Colori nel bianco, nella luce, nell’aria, in un insieme ordinato ma caldo, secondo lo stesso principio che informa (o dovrebbe informare) le sue opere. Un insieme che si presenta come un’oasi di pacatezza rispetto all’arroganza monumentale di tanta architettura contemporanea, o alla turbolenza delle continue provocazioni di Rem Koolhaas, ma che appena sotto lo strato di vernice apollinea rivela una macchina di inesorabile potenza. Uno studio professionale come RPBW (Renzo Piano Building Workshop) opera esattamente con lo stesso cinismo dell’OMA (Office for Metropolitan Architecture) di Rem Koolhaas, con la differenza che quest’ultimo è anche un intellettuale, portatore di un pensiero che, condivisibile o meno, è politicamente rilevante, mentre all’opposto l’unica cosa che il mantra di Piano riesce davvero a smaterializzare è il senso politico di ogni singola decisione che riguarda le trasformazioni urbane e territoriali.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.