Libertà vere e presunte al Mambo di Bologna
Ieri ero a Bologna per il SAIE, dove si parlava di BIM. Tutto il mondo sembrava voler passare da Bologna quello stesso giorno, così ho dovuto attendere diverse ore per un treno che, in ritardo, mi riportasse a Milano. Ma ci sono luoghi peggiori in cui rimanere spiaggiati, così ne ho approfittato per una visita […]
Ieri ero a Bologna per il SAIE, dove si parlava di BIM. Tutto il mondo sembrava voler passare da Bologna quello stesso giorno, così ho dovuto attendere diverse ore per un treno che, in ritardo, mi riportasse a Milano.
Ma ci sono luoghi peggiori in cui rimanere spiaggiati, così ne ho approfittato per una visita al Mambo, il museo d’arte moderna di Bologna. Dove la Fondazione Golinelli mette in mostra, dal 18 settembre al 22 novembre, un’interessante collettiva di installazioni per la serie Arte e Scienza, dal titolo Gradi di libertà: dove e come nasce la nostra possibilità di essere liberi.
Gradi di libertà è una mostra di arte e scienza. Tratta un tema di stringente attualità: dove e come nasce la nostra possibilità di essere liberi o di non esserlo? Siamo sempre noi a decidere? Liberi si nasce o si diventa? La libertà finisce dove iniziano i diritti degli altri o dove dice il nostro cervello? Di quali libertà avremo bisogno fra cento anni?
La scienza illumina i segreti della mente e ce li sta finalmente svelando. L’arte ce li ha sempre svelati. Dunque, attraverso il doppio sguardo della scienza e dell’arte, la mostra propone un percorso di esplorazione attorno al tema più importante della nostra vita.
Artisti in mostra:
- Halil Altindere;
- Vanessa Beecroft;
- Cao Fei;
- Igor Grubić;
- Susan Hiller;
- Tehching Hsieh;
- Dr. Lakra;
- Ryan McGinley;
- Pietro Ruffo;
- Bob e Roberta Smith;
- Ryan Trecartin;
- Nasan Tur.
Ora, non sono una grande conoscitrice d’arte moderna e, parlandone, ne parlerei probabilmente a sproposito. Ma due, tra le installazioni multimediali proposte, parlavano di temi a me vicini.
Cao Fei
Whose Utopia è un’opera del 2006, un filmato di venti minuti girato negli stabilimenti della Osram nel Delta dello Zhu Jiang, un sistema fluviale meglio conosciuto come Fiume delle Perle. L’area sta attraversando una rapida industrializzazione, mentre la Cina continua la propria trasformazione sociale, e l’economia locale è stata catapultata direttamente in un nuovo mondo, dominato dalle multinazionali che lo promuovono. Ma il filmato non è un filmato di facile denuncia. Oltre a mostrare in modo straordinariamente completo i passaggi manuali nella produzione di una lampadina a incandescenza, di un neon, di un led, osserva la rapida trasformazione sociale e la nuova mobilità che gli abitanti della regione si trovano ad affrontare. Mani guantate e fasciate si muovono rapidamente per saldare, montare, inscatolare e controllare prodotti. Mentre una mescolanza di coreografie tradizionali e danzatrici dal balletto europeo si muovono delicate tra gli scaffali dei magazzini e i banchi di lavoro. Il filmato è suddiviso in tre capitoli, tra cui Factory Fairytale (la parte che si può vedere sul sito internet dell’artista) e My Future Is Not A Dream.
Parte della colonna sonora è Empty room waltz della band Prague (布拉格).
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Cao Fei è un’artista cinese (sì, con l’apostrofo) già nota per aver realizzato, insieme al noto attivista rurale Ou Ning, il documentario San Yuan Li sull’urbanizzazione del piccolo villaggio omonimo, rapidamente inglobato dalla crescita della vicina Guangzhou (o Canton, come la chiamiamo noi occidentali). Durante la sua produzione, ha più volte fatto uso di immagini prese dai concetti del gioco di ruolo, per esternalizzare i sogni e le fantasie dei personaggi ritratti. Tratta temi spinosi con estrema delicatezza, e senza retorica.
Halil Altindere
Decisamente opposta è l’operazione portata avanti da Halil Altindere, artista turco noto per le sue manifestazioni di dissenso contro l’autorità, che decide di mettere in scena un video hip-hop sulla demolizione di Sulukule, quartiere degradato di Istanbul storicamente noto per essere abitato da ceppi Rom.
La “riqualificazione” di Sulukule è iniziata nel 2006 con il Sulukule Renewal Project: il quartiere nasceva durante l’Impero Bizantino, circa mille anni fa, fuori dalle mura di Istanbul dove ai rom era concesso di stabilirsi, ai margini del centro abitato. Con l’ingrandirsi della città, Sulukule si è ritrovato in posizione centrale, richiamando l’attenzione del governo che ha chiamato la demolizione degli edifici storici. Al loro posto, sono state costruite piccole ville a pochi piani, bianche e arancioni, il cui prezzo è immediatamente divenuto troppo elevato per gli abitanti originari. Nel frattempo, la cultura del quartiere era stata distrutta e i suoi abitanti avevano trovato rifugio in zone vicine (Karagümrük, Gaziosmanpaş e Balat) e lontane (Taşoluk, ad esempio, che dista quasi 40 chilometri). Non si trova più traccia delle “case di intrattenimento” ancora menzionate in qualche vecchia guida turistica, piccole abitazioni trasformate in taverne, ostelli e case di tolleranza dove si gustava cucina tipica e si esibivano numerosissimi esponenti di una comunità che artisticamente stava crescendo. Ballerini e musicisti trovavano lavoro in queste case, insieme a circa 4.000 persone della piccola comunità. L’interesse folkloristico aveva contribuito all’accettazione reciproca, fino a quando le case non erano state chiuse (suona familiare?) perché tacciate di prostituzione. Dal 1990 al 2006, quando le ruspe sono entrate a Sulukule, il fenomeno cui si è assistito è stato un vero e proprio mobbing sociale: intere famiglie, per lo più in affitto, sono state trasferite in quartieri distanti, non collegati dai mezzi pubblici, e non hanno più potuto raggiungere i posti di lavoro. Il Consiglio di Stato ha recentemente dichiarato che il Sulukule Renewal Project non ha portato alcun beneficio pubblico, e che l’aspetto del quartiere è da riportate alla sua forma originaria (non dimentichiamo che Sulukule, come molti altri quartieri di Istanbul, è patrimonio dell’umanità). Quindi le ruspe dovranno entrare nuovamente in un quartiere che già ospita nuovi abitanti, tra cui rifugiati siriani.
Nel frattempo, Sulukule è ancora al centro di fenomeni artistici e culturali spontanei. Risale al 2010 la formazione della Sulukule Kids Arts Atelier, che tra le altre cose insegna ai giovani a leggere e scrivere, mentre nell’anno successivo rinascono laboratori musicali, che esplorano sia la musica tradizionale rom che forme d’espressione importate da altre culture.
Ci sarebbe stato molto da mostrare, tra i laboratori attuali e le case d’intrattenimento di un tempo. Halil Altindere decide invece di dare voce a questo disagio mostrando il gruppo di giovani rapper Tahribad-ı İsyan, i Ghetto Machines, mentre si esibiscono per la strada, cantando ammanettati alle ruspe, si danno al pestaggio di una guardia cui viene poi dato fuoco con una molotov, e poi continuano a cantare mentre vengono colpiti da colpi di pistola al torace.
Mi rifiuto di incorporarlo: chi lo gradisce, può guardare il video qui (con una qualità del suono decisamente pessima).
Non si può essere più retorici di così.