Architettura a Milano: una guida (1)

Dopo tanto tempo di fumetti e cazzeggio, torno a qualcosa di serio. Come richiesto da Fiamma e per prepararmi all’esame di lunedì prossimo ecco una breve guida ad alcune delle architetture che si possono ammirare nella mia città, per scoprire che qualcosa di bello da vedere c’è anche qui. Anzi. Che c’è molto di bello […]

Dopo tanto tempo di fumetti e cazzeggio, torno a qualcosa di serio. Come richiesto da Fiamma e per prepararmi all’esame di lunedì prossimo ecco una breve guida ad alcune delle architetture che si possono ammirare nella mia città, per scoprire che qualcosa di bello da vedere c’è anche qui. Anzi. Che c’è molto di bello di vedere.
Inizio dall’architettura degli anni ’20-’40, che a me non piace ma che ha i suoi estimatori. Già che c’ero, ho aggiunto su Wikipedia le voci che non c’erano.

Fonte: Milano Contemporanea, di Maurizio Boriani, Corinna Morandi, Augusto Rossari. Un testo recentemente ristampato dall’editore Clup in copia anastatica; libro obsoleto ma ancora valido, nonostante le grandi lacune dovute all’età.

Palazzo dell’arte al parco Sempione (parco Sempione, MM1 Cadorna). Il Palazzo dell’Arte è l’edificio che ospita la Triennale di Milano ed è stato realizzato dall’architetto Giovanni Muzio nel 1933.
L’edificio, realizzato grazie al lascito del senator Bernocchi, venne progettato per essere sede delle esposizioni internazionali delle Arti decorative e industriali moderne e dell’Architettura moderna (le cosiddette Triennali, appunto) fino ad allora tenutesi a Monza. La posizione del palazzo venne studiata per fare da completamento al compesso monumentale del Castello Sforzesco e del Parco Sempione che, proiettandosi verso l’Arco della Pace, ospitava anche altri interventi come l’edificio liberty dell’Acquario e la Torre del Parco. Alle funzioni espositive, la Triennale univa spazi di servizio (come uffici, magazzini e depositi) a saloni e corridoi per esposizioni temporanee, una biblioteca, un teatro per 1200 persone, un ristorante collegato alla terrazza giardino, un caffé ed alcuni atelier da affittare agli artisti ritenuti meritevoli. L’edificio era inoltre progettato per essere strettamente collegato anche allo spazio verde antistante, come denota il forte elemento del portico aggettante.
Il linguaggio architettonico scelto da Giovanni Muzio per l’edificio è uno stile classico che sottolinea il carattere monumentale e "di regime" dell’edificio, pur non scadendo negli eccessi del linguaggio novecentista di alcuni suoi contemporanei. Prettamente razionalisti sono corpi come la scala di sicurezza sul lato nord, la torre degli ascensori, le passerelle di collegamento con la terrazza, le coperture e la terrazza a nord; le parti più in vista sono invece caratterizzati da soluzioni quali l’ordine gigante, l’arcata in serie, la scelta dell’ impluvium interno ed altri tocchi classicheggianti. Gli interni sono lasciati volutamente grezzi, per lasciare il massimo spazio agli allestimenti delle varie mostre.
Il restauro del 1984 ha aggiunto all’edificio originale le scale di sicurezza esterne.
[da Wikipedia, l’enciclopedia libera… voce già esistente, ma l’avevo scritta io]

Università Cattolica del Sacro Cuore (largo Gemelli 1, MM2 Sant’Ambrogio). Iniziata nel 1929 e terminata vent’anni dopo, l’università del Sacro Cuore è ospitata da un edificio ad opera di Giovanni Muzio, in collaborazione con l’ingegnere Pier Fausto Bartelli.
Il progetto ha iniziato a prendere forma dal restauro dei chiostri bramanteschi del complesso ecclesiastico di Sant’Ambrogio, restauro profondamente contestato dal quale presero forma i nuclei didattici iniziali. A questi corpi vennero poi aggiunti l’edificio d’ingresso, sede degli uffici e della Cappella Maggiore, esattamente in asse con il chiostro preesistente e collegato ad esso da un percorso porticato aperto. Caratteristica dell’architettura di Muzio è la torre campanaria a sottolineare l’edificio principale e l’utilizzo del marmo per l’ingresso, differenziando così la superficie "nobile" dalle altre, in mattone; ruolo di spicco riveste anche il cotto, ripreso direttamente dalla tradizione costruttiva lombarda ottocentesca. Vennero aggiunte ai chiostri preesistenti quattro nuove scale e vennero demolite alcune pareti settecentesche per accorpare vari ambienti a formare le aule. Infine, venne aggiunta la biblioteca, tra i corpi dei due chiostri, e il refettorio benedettino venne adattato per diventare l’Aula Magna demolendo solai e tramezzi e valorizzando sia l’antica volta a lunette che le finestre, murate in epoca napoleonica. Nel 1933-34 al corpo centrale vennero aggiunti i due collegi maschili di cui uno destinato ai seminaristi: si tratta di due edifici indipendenti e alti cinque piani collegati da un corpo di distribuzione orizzontale. Nel 1937 venne aggiunto anche il collegio femminile. L’ultima aggiunta fu la mensa nel 1949, caratterizzata da uno stile particolarmente sobrio in cui Muzio fa largo uso di paramenti intonacati, finimenti di mattoni e grigliati a sottolineare le finestre.
[da Wikipedia, l’enciclopedia libera… aggiunto oggi il paragrafo "l’edificio"]

Case di abitazione tra via dei giardini e la Stazione centrale (anni ’30). La fascia ospita numerosi interventi di Giovanni Muzio, architetto simbolo dell’architettura a Milano durante il deprecato periodo: sua opera prima è la Ca’ Brutta in via Moscova (MM2 Moscova appunto), un edificio assai particolare che manifesta il suo interesse per il modernismo ed il suo stretto legame con i pittori metafisici. L’edificio è costituito da due corpi, spezzati da una via privata che aumenta gli affacci interni ed interlaccia il massiccio edificio al contesto urbano. La facciata è suddivisa in fasce orizzontali di cui la più bassa è formata da corsi di travertino, la seconda è caratterizzata da intonaco grigio steso "alla francese" e la terza, in alto, è rivestita di marmo bianco, rosa e nero. Si nota un largo uso di elementi classici, la cui rigidità e simmetria è però dissolta nella disposizione delle finestre su via Turati ed in altri elementi tipicamente asimmetrici.
Da notare anche l’accuratezza tecnica e l’attenzione al particolare costruttivo, che saranno tipiche di Muzio per tutta la sua carriera.
[da Wikipedia, l’enciclopedia libera… aggiunto oggi l’articolo]
Di Giovanni Muzio nella zona sono da notare anche il convento di Sant’Angelo e l’abitazione di via Sandri (1939) caratterizzati dall’uso del mattone come elemento decorativo. In piazza Cavour (MM3 Cavour) si può vedere anche il palazzo dei Giornali (1938 – 1940) generalmente considerato un esempio involutivo della sua architettura, ecessivamente fascisteggiante ed influenzato dal Piacentini. La facciata è simmetrica attorno ad una grande apertura ed alla scultura (di rara bruttezza) di Sironi ed i finestroni sono inquadrati dai tipici vani rettangolari a ricordare un ordine gigante.

Stazione centrale (MM2 e MM3, centrale). Costruito tra il 1925 e il 1931, è la verogna di Milano per lo stato di sporcizia e abbandono in cui versa: solo di recente sono stati avviati alcuni lavori di restauro che, spero, porteranno ordine tra la proliferazione di orrendi chioschetti più o meno abusivi e negozi di souvenir e renderanno la stazione un luogo meno fetente in cui passare la mezz’ora di attesa del treno. Di chiara veste fascista, è opera dell’architetto Ulisse Stacchini, vincitore di un apposito concorso bandito nel 1912. Il progetto originale, per spezzare una lancia in favore di Stacchini, era decisamente più sobrio e non sovraccarico di decorazioni, bassorilievi e mosaici come invece poi venne realizzato con maggiore attenzione ad un eclettismo della peggiore specie e ad uno spiccato gigantismo. Con la sua imponente mole in pietra d’Aursina, la stazione è generalmente considerata la prima opera del regime fascista e già in fase di realizzazione fu profondamente criticata dal punto di vista funzionale (dal punto di vista formale non si azzardava nessuno): il nodo principale è la grande differenza di quota tra la piazza Duca d’Aosta e i binari, tutt’ora insoluto (le strette e lente scale mobili non possono in alcun modo essere considerate una soluzione). Altro elemento caratteristico è la copertura in vetro e ferro della zona dei binari, che vorrebbe citare la grande architettura francese ottocentesca ma che riesce solo in parte realizzando uno spazio formalmente brutto e assai inospitale.

Civico planetario Hoepli di Piero Portaluppi, 1936 (MM1 Porta Venezia). La mia architettura preferita di Portaluppi, il Portaluppi che preferisco e che non è sicuramente quello dell’Arengario. Edificio che fonde forme neoclassiche e citazioni dall’architettura liberty e del ferro francese, è a pianta ottagonale e, con la sua sala principale di quasi venti metri di diametro, è il più grande d’Italia. E’ situato accanto al Museo di Storia Naturale, nei giardini di Porta Venezia.

Piazza Diaz (MM1 Duomo). Situata nella fascia tra San Babila (MM1 San Babila appunto) e Piazza Affari che venne pesantemente ridisegnata nel periodo fascista, la piazza Diaz è uno spazio che ben sintetizza le tensioni e le contraddizioni dell’architettura di quel periodo. Come scrive Giuseppe Pagano sul Popolo d’Italia nell’11 agosto 1938, "la prima febbre scoppia quando l’infezione edilizia di Piazza Diaz, distrutte le case basse preesistenti e intonate al volume del Duomo, le sostituisce con granitici baluardi, intacca l’esile crosta della piazza del Duomo e urta la Manica lunga con la grazia di un ubriaco che sposta gli armadi". Infezione edilizia. Infelici infatti in questa sistemazione sono sia il già citato Arengario di Portaluppi, che sta per essere restaurato con un intervento che un po’ mi inquieta, sia i due volumi contrapposti dell’Istituto Nazionale delle assicurazioni e dell’Hotel Plaza, un edificio pesante di soluzioni costruttive obsolete e ridondanze linguistiche. A completare l’opera, il terrificante monumento ai Carabinieri (di Luciano Minguzzi) che qualcuno pensa sia una mano e che altri, più fantasiosi, si ostinano a scambiare per delfini.

Palazzo di Giustizia, comunemente detto Tribunale, ad opera di Marcello Piacentini (1932-1940). Situato in corso di Porta Vittoria dove un tempo sorgeva la caserma di artiglieria a cavallo "Eugenio di Savoia", il palazzo non è frutto di un progetto vincitore del concorso bandito nel 1929 dal Comune di Milano, come molti credono, ma di un incarico diretto del Podestà al Piacentini l’anno successivo, dopo che il concorso si era concluso senza vincitori.  Per 19.000mq di pianta trapezoidale e 120 m di orrendo fronte stradale, il Tribunale è un altro simbolo della Milano razionalista-fascista: è diviso in quattro piani e due mezzanini e si caratterizza per gli altisonanti paramenti in marmo, per l’esasperata solidità ed imponenza ricercata attraverso l’ordine gigante e l’assenza di forme classicheggianti a favore di nette squadrature. Completano l’opera il bronzo dorato dei serramenti che, nuovi e sotto il sole, dovevano fare davvero un’impressione raggelante. Da segnalare la collezione di oltre 140 opere d’arte conservate all’interno, tra cui opere scultoree di Martini (cui è in questi giorni dedicata una mostra al Palazzo delle Stelline), Manzù e Melotti, quadri di Carrà e Sironi e mosaici, di cui uno di Sironi si trova nell’Aula d’Assise.

Università Bocconi, di G. Pagano e G. Muzio (1938 – 1940). Insieme microurbanistico funzionalmente autonomo, il quartiere dell’università Bocconi è costituito dal contributo dialettico dei due architetti, assai diversi e potenzialmente in antitesi: laddove Pagano punta alla modularità e all’unitarietà formale, Muzio la assume come punto di partenza per spezzarla attraverso elementi strutturali e formali quali le bucature delle finestre e il portico. I punti di contatto tra i due modi di progettare si riscontrano invece in planimetria, con la progettazione di edifici a pianta aperta e corpi di fabbrica che tendono ad abbracciare gli spazi semipubbici circostanti (da notare ad esempio l’edificio di Pagano con pianta a svastica).

Città studi, Politecnico per gli amici (MM2 Piola). Inaugurata nel 1927 in località Cascine Doppie (l’attuale piazza Leonardo da Vinci) è un vero e proprio quartiere dedicato all’università eppure non autonomo come l’università Bocconi, bensì pienamente integrato ed interlacciato. L’area ospita le sedi di quasi tutte le facoltà scientifiche, tra cui architettura (qui è l’origine di tutti i mali ovvero il considerare architettura una facoltà scientifica) e ingegneria, medicina e biologia: qui si trovano l’obitorio e l’istituto di medicina legale, l’istituto neurologico e strutture come la Casa dello Studente (un terrificante edificio con colonne in ordine gigante e timpano neoclassicheggiante).

Fiera Campionaria (MM1 Amendola Fiera), sottotitolo "fermiamo lo scempio". Sì, perché questa importante area di archeologia industriale ed architettura sta per essere demolita per far posto a questo sgorbio di grattacieli newyorkesi, come conseguenza cronica dell’innamoramento dell’ex-sindaco di Albertini per la Grande Mela (e se la mettesse su per il… ops… scusate…)
Tra i padiglioni progettati fino alla guerra, sono da citare quelli di nomi che Albertini ritiene insignificanti, tra cui De Finetti, Ponti, Lancia, Arata, Albini e Portaluppi. L’edificio di maggior pregio è senza dubbio l’edificio d’ingresso in piazza Domodossola, insieme al Palazzo dello Sport (Vietti, 1925).
Sui numerosi altri edifici di pregio costruiti dopo la guerra parlerò nei prossimi post.

Casa Rustici di Lingeri e Terragni (1934) in corso Sempione 36. Edificio di grande interesse per la distribuzione dei corpi di fabbrica ed il modello planimetrico, gioca su due blocchi paralleli al fronte stradale rifiutando il classico modello con cortile al centro. Gli spazi interni ed esterni, molto articolati, sono collegati da balconate e corpi di distribuzione orizzontale e verticale: all’ultimo piano completa la complessità architettonica una sorta di villa pensile con giardini pensili e le caratteristiche travi a L verso il corso Sempione. La casa è stata simpaticamente ribattezzata "ca’ dei merli" dai Milanesi, che non gradivano la soluzione architettonica delle balconate che fa somigliare l’edificio ad una gigantesca gabbietta per gracule indiane.

Quartiere Isola, con edifici di Lingeri e Terragni.
Il quartiere Isola di Milano si trova vicino alla stazione di Porta Garibaldi e si è sviluppato tra la fine del XIX secolo e i primi anni del XX.
La sua denominazione deriva da una delle vicine cascine (chiamate anche "isole", appunto), l’Isola Garibaldi, ma può far riferimento anche ad una particolare condizione che vide la zona, dopo la costruzione della ferrovia e l’interruzione del percorso da porta Garibaldi a Dergano e Como, effettivamente isolata dal tessuto circostante. Anche oggi, il quartiere è raggiungibile solo attraverso il ponte di via Farini, esistente anche agli inizi del secolo scorso in forma di sottopassaggio e soprannomato "ponte della Sorgente" per i frequenti allagamenti che avevano luogo durante le abbondanti piogge che caratterizzano le mezze stagioni lombarde. Questo isolamento e la presenza del vicino scalo merci, oltre a quella di industrie storiche come la Tecnomasio Brown-Boveri, l’Elvetica e la Pirelli, hanno reso il quartierei quasi immediatamente una zona di abitazioni operaie, come testimonia tutt’oggi la presenza delle sedi di numerose associazioni operaie e sindacali.
Negli anni successivi alla I guerra mondiale, la zona ha subito numerose trasformazioni, non ultime lo della stazione in zona più centrale (dove si trova ancora oggi) e la sua trasformazione da scalo merci a stazione passeggeri. Il nuovo piano regolatore del 1953, inoltre, prevedeva in quell’area una nuova sede direzionale ed il cosiddetto "asse attrezzato", una via a scorrimento veloce prolungamento di viale Zara verso l’arco della Pace. La realizzazione del quartiere venne interrotta dopo molte polemiche, soprattutto da parte degli abitanti della zona che avrebbero dovuto essere sfollati, ed il piano regolatore del 1978 si trovò a dover riconfermare il carattere operaio ed artigianale della zona: nonostante l’annullamento dei lavori, il progetto ha lasciato numerose tracce nel tessuto urbano in forma di punti rimasti a lungo irrisolti come lo spiazzo di fronte alla stazione ed un troncone di ponte sopra lo scalo merci.
Il quartiere presenta numerose abitazioni tipiche rel razionalismo milanese, come le case di Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni, il quartiere di Enrico Agostino Griffini e Manfredo Manfredi per conto della Società Edificatrice Case Operaie, Bagni e Lavatoi Pubblici e destinato ai lavoratori dell’Ospedale Maggiore, lo stabilimento della Italclima di Giò Ponti e Luciano Baldessari. Tra questi edifici, particolarmente interessanti sono la casa Ghiringhelli del 1933, la casa Comolli-Rustici del 1935 e la casa di via Perasto del 1934, tutte di Terragni e Lingeri.
Gli isolati, tutti di circa 120 x 100 m, erano suddivisi in lotti che potevano variare dai 500 ai 2000 mq ed erano caratterizzati da ripartizioni ortogonali. Il piano terreno era occupato da negozi o botteghe artigiane sul fronte strada e magazzini o attività produttive di maggiori dimensioni verso le corti interne, mentre i piani superiori destinati alle abitazioni erano del tipo a pianerottolo o, più spesso, a ballatoio. Il tipo di distribuzione differenziava le abitazioni in base alle destinazioni: il ballatoio era riservato alle abitazioni operaie e distribuiva piccoli locali, generalmente ad altissima densità abitativa; il pianerottolo connotava spazi studiati per il ceto medio, spesso dotati di servizi igienici privati e con dimensioni dai due ai quattro locali.
[da Wikipedia, l’enciclopedia libera… tanto avevo scritto io pure questo]

Ospedale maggiore di Niguarda, di G. Marcovigi, E. Ronzani e G. Arata (1931). Frutto progettuale di un ingegnere (Marcovigi) e un direttore sanitario (Ronzani), con l’architetto Arata come mero consulente delegato al "decoro architettonico", è un edificio asimmetrico che non sceglie né l’impianto a padiglioni né quello a blocco centralizzato ma una soluzione intermedia: monumentale, distribuito con inqueitante autoreferenzialità (il fulcro è infatti l’edificio degli uffici e non l’accettazione, che si trova sul perimetro insieme alle lavanderie e agli ambulatori), è un giganteggiante edificio in marmo bianco di forme squadrate che ricordano da vicino il Tribunale. Caratteristica anche in questo caso è la collezione di opere d’arte ospitate, che diventerà presto una tradizione dell’architettura di regime soprattutto nella Capitale.

Casa d’abitazione in piazza d’Istria, di Minoletti (1934-35). Edificio simbolo del razionalismo milanese, è costituito da una quinta semicircolare (avrebbe dovuto abbracciare circolarmente tutta la piazza ma il progetto non fu mai portato a termine). Sono considerate caratteristiche le "mensolone" dei volumi, oltre agli intonaci rosso brillante e grigio perla, che spingono verso forme espressive che vadano oltre il razionalismo.

Fine della puntata. La prossima puntata del ripasso pubblico sarà dedicata all’architettura del secondo dopoguerra. Ci infilerò anche una puntata speciale sul liberty, anche se ancora non so quando.
Si è capito che non mi piace l’architettura fascista? *__^

5 Comments

  1. Lo è davvero. Soprattutto dovrebbe essere scoperta dai suoi governanti e amministratori, che sin dall’Unità d’Italia sono pervasi dalla fregola di demolire e ricostruire, sempre su modelli stranieri e sempre vergognandosi di quello che c’è adesso.

    Crepi il lupo! (senza offesa a questo)

  2. Lo è davvero. Soprattutto dovrebbe essere scoperta dai suoi governanti e amministratori, che sin dall’Unità d’Italia sono pervasi dalla fregola di demolire e ricostruire, sempre su modelli stranieri e sempre vergognandosi di quello che c’è adesso.

    Crepi il lupo! (senza offesa a questo)

  3. Lo è davvero. Soprattutto dovrebbe essere scoperta dai suoi governanti e amministratori, che sin dall’Unità d’Italia sono pervasi dalla fregola di demolire e ricostruire, sempre su modelli stranieri e sempre vergognandosi di quello che c’è adesso.

    Crepi il lupo! (senza offesa a questo)

  4. Lo è davvero. Soprattutto dovrebbe essere scoperta dai suoi governanti e amministratori, che sin dall’Unità d’Italia sono pervasi dalla fregola di demolire e ricostruire, sempre su modelli stranieri e sempre vergognandosi di quello che c’è adesso.

    Crepi il lupo! (senza offesa a questo)

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