Di Michelangelo e della crisi del suo tempo
Michelangelo Buonarroti, Pietà vaticana Oddio, devo ammettere che apprezzo Michelangelo molto di più come ingegnere e come scultore che come pittore. Sembrerà una bestemmia, ma i corpi nervosi e tesi, le muscolature iperboliche, i colori sgargianti di capolavori come il Tondo Doni o la Cappella Sistina non incontrano il mio gusto. In ogni caso, questo […]
Il 6 aprile del 1529 Michelangelo Buonarroti venne nominato «governatore et procuratore» delle fortificazioni di Firenze dal Magistrato dei Nove della neonata Repubblica costituitasi dopo l’espulsione dei Medici, due anni prima. L’incarico consisteva nell’organizzare fortificazioni di terra e opere difensive sul territorio, oltre a una fortezza intorno a San Miniato. Alla difesa della città toscana collaborarono anche altri architetti come Antonio da Sangallo il Vecchio e suo nipote Francesco, ma a nulla servì un tale dispiegamento di ingegni per respingere l’assedio delle truppe pontificio-imperiali, che tra il 1529 e il 1530 riconquistarono Firenze deponendo la Repubblica e restaurando il dispotico Principato mediceo. Le cronache di quel periodo avrebbero segnato in profondità Michelangelo. Mentre si accingeva a difendere le sorti della Repubblica studiando le soluzioni più idonee alla sua difesa, su di lui gravavano i sospetti di alcuni che lo volevano troppo vicino alla casa dei Medici, o quelli di altri – pronti a patteggiare con il papa – troppo esposto alla causa repubblicana. Quando le truppe fiorentine avanzarono alla conquista di Cortona e di Arezzo fu denunciato per tradimento, ma non fuggì, apprestandosi invece a respingere l’assedio. Michelangelo considerò l’epilogo della sconfitta più che una vicenda militare, una disfatta morale. Era consapevole, ormai, che non poteva esserci alternativa al dispotismo mediceo e che anche il governo repubblicano non era estraneo a velleitarismi e ambiguità. Ristabilito l’ordine, Clemente VII gli ordinò di proseguire i lavori alla Sacrestia di San Lorenzo, ma di lì a qualche anno – nel 1532 – partì per Roma dove avrebbe eseguito opere eccelse, sature di importanti sviluppi futuri. Il periodo fiorentino era concluso. La libertà di cui aveva usufruito nell’invenzione di complessi organismi spaziali quali bastioni, rivellini, fortezze non la sperimentò più: fu il «fallimento della laica città umanistica». Gli restava una straordinaria esperienza, che avrebbe influenzato la sua opera fino alla tarda maturità, e che trasferì a Roma, nella riconfigurazione architettonica di palazzi e chiese. Il più grande disegno di fortificazioni di Michelangelo, tra i circa venti fogli superstiti conservati alla Casa Buonarroti di Firenze, è esposto fino al 10 dicembre nella mostra dal titolo «Michelangelo e il disegno di architettura» a Palazzo Barbaran da Porto di Vicenza, insieme ad altri suoi disegni architettonici. Indubbiamente, le fortificazioni fiorentine rappresentano un nodo cruciale dell’architettura michelangiolesca, tuttavia la mostra torna ancora sul concetto secondo il quale Michelangelo è scultore anche quando lavora come architetto. Un pregiudizio che ritorna, pur «senza convincere nessuno» – come afferma Howard Burns nel suo saggio introduttivo al catalogo (Marsilio). Lo studioso tenta di spiegare la diversità di Michelangelo con l’assenza di un suo «libro» di regole e principi – diversamente, ad esempio, da Palladio; inoltre, sottolinea come l’artista facesse un uso eterodosso del patrimonio dell’antichità, al quale non attingeva «da filologo o archeologo, come facevano molti architetti del suo tempo» – da Giuliano da Sangallo a Bramante a Philibert de l’Orme. E, ancora, Howard Burns ci ricorda che, per carattere, Michelangelo non concepiva il fatto di «perdere tempo», contraddicendo così il tòpos storiografico dell’architetto rinascimentale dedito con pazienza ai rilievi dei monumenti o allo studio di Vitruvio. D’altronde fu lo stesso Michelangelo a riferirci che all’architettura si dedicava «benché non sia mia professione». Con differenti variazioni gli storici dell’arte hanno riproposto questa idea dell’architetto-scultore o del non-architetto, e essa non a caso infatti torna a costituire il leit-motiv della mostra vicentina. Per parte sua, la curatrice Carolin Elam afferma che essendosi formato come pittore nella bottega del Ghirlandaio, Michelangelo si dedicò alla scultura alla corte di Lorenzo il Magnifico e da qui passò all’architettura (come scrisse Vasari) perché per certi versi obbligato dai modi con cui inserire le sculture nelle strutture murarie. È attraverso l’«opera nel quadro intagliato» – come viene definito il complesso scultorio monumentale con i suoi elementi architettonici (quadro) e decorativi-scultorei (intaglio) – che la storica inglese guarda alla Sacrestia Nuova in San Lorenzo leggendola come una soluzione che ibrida l’architettura con la scultura: una prova già sostenuta da Michelangelo agli esordi del tormentato progetto per la tomba di Giulio II. Ogni attenzione è rivolta, quindi, allo spartito decorativo, ai dettagli architettonici antichi, appresi ora attraverso la copiatura del Codice Coner (l’album che raccoglie i disegni di Michelangelo) oppure inventati, come nel caso dei timpani triangolari e ricurvi nei portali della Biblioteca Laurenziana o delle finestre «inginocchiate» di Palazzo Medici, composte da due grandi mensole dal profilo ricurvo sotto il davanzale. Così, procedendo nel percorso della mostra, nulla si dice della concezione spaziale michelangiolesca e tutto viene ridotto all’uso linguistico del canone classico (ordini e proporzioni) in prospetti monumentali – la facciata di San Lorenzo – o in fronti di più ridotte dimensioni (edicola di Leone X a Castel Sant’Angelo). Quel che agli studiosi raccolti intorno alla mostra vicentina sfugge è proprio la dimensione michelangiolesca maturata nelle opere fiorentine, che non sempre è riconducibile ai progetti dell’«opera del quadro». È difficile, per esempio, condividere con Carolin Elam il suo giudizio secondo il quale – sull’esempio dei monumenti sepolcrali – Michelangelo vedesse l’architettura «in termini di singole facciate autonome dal carattere essenzialmente frontale e composte da piani sovrapposti». Non lo è il vestibolo della Biblioteca Laurenziana: un «ictus irrefrenabile», come affermò Cesare Brandi e un «sovvertimento della struttura profonda al cuore stesso dell’architettura brunelleschiana», ben altro da un rinnovamento del codice classico, come i neologismi degli elementi architettonici farebbero intendere. L’eversione michelangiolesca si esprime nella costruzione di uno spazio che è reso «illusivo» e «occlusivo» al tempo stesso. L’interno del vano che conduce alla sala di lettura è disegnato come un esterno: «un pozzo vertiginoso – scriverà Bruno Zevi – trattato come una piazza coperta». Tutto lì dentro è ambiguamente in moto. Ogni parte dell’opera, dalle colonne binate che sembrano svincolarsi dalla parete muraria alla scala che discende liquida sul piano, fino al rapporto invertito tra parete e ordine, partecipa al più antinaturalistico degli spettacoli dell’architettura cinquecentesca. Con essa Michelangelo chiude qualsiasi possibile conciliazione, nel segno dell’ordine e della misura, con la realtà del mondo. Il «conflitto inconciliabile» o il «perpetuo disaccordo», che nella Laurenziana l’architettura vive con se stessa (come evidenziò Wittkower) non echeggia minimamente nel solo disegno «dimostrativo» scelto dalla mostra per rappresentarla. Forse una più consistente presenza di disegni della Biblioteca avrebbe dato più spessore a un periodo unanimemente riconosciuto come il più drammatico che l’artista visse prima del suo arrivo a Roma. Sulle sponde del Tevere questo passaggio esistenziale si riverbera ancora nel bellissimo disegno della pianta per la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, nel quale l’adozione di un «codice del colore» rende viva la difficile e complessa ricerca michelangiolesca di una geometria, e s’incarica di sovvertire le regole dell’umanesimo classicista esprimendo al tempo stesso inquietudine e dubbi sugli obiettivi artistici da raggiungere. Mutuato sui modelli di Leonardo e Bramante sarà questo organismo a pianta centrale, per nulla considerato dai suoi contemporanei, a influenzare i protagonisti della prima architettura barocca, e in particolare Borromini. Nella città eterna Michelangelo seguiterà a interrogarsi sulla crisi dei valori ideologici e simbolici determinatasi nella società civile e religiosa del cinquecento. Al centro del suo dramma esistenziale c’è la «dissoluzione della forma»: se nel Giudizio Universale della Sistina assume la dimensione superba di corpi e figure gravitanti nel vuoto, nell’architettura questa gli resiste non concedendogli evasioni. Come fece rilevare Manfredo Tafuri, saranno due le alternative che gli si presenteranno: l’«integrazione» di ciò che altri avevano cominciato – dal Palazzo Farnese di Giuliano da Sangallo al San Pietro di Bramante – o la «contestazione», attuata per esempio in Campidoglio con il Palazzo dei Conservatori. In ogni caso Michelangelo era consapevole del fatto che nella città poteva lasciare «in sospeso» là dove non c’erano valide risposte, ma non poteva ridursi all’assoluto silenzio. È in questa prospettiva che va capito il senso del «non-finito» architettonico, così connotante dell’intera sua opera, nella piena consapevolezza dell’autonomia disciplinare delle arti. Continuando nel percorso della mostra vicentina, ci si imbatte in una riproposta della intricata interpretazione del disegno di Dresda appartenuto a Vasari (altare o monumento funebre?), argomentando l’«ipotesi provvisoria» della progettazione di un «arco effimero», che Michelangelo ideò per la Chiesa di San Felice in Piazza a Firenze (sul verso di un foglio acquistato nel 1979 dalla Fondazione Cariverona). E, per finire, la mostra presenta in modo convincente la tesi di Howard Burns, che legge la presenza del Buonarroti nell’esecuzione delle modanature esterne nel fiorentino Palazzo Galli-Tassi di via Pandolfini. Tra i risultati della esposizione di Vicenza c’è dunque un proseguimento dello scavo critico e storiografico sull’opera e sulla biografia michelangiolesca, che fa capire meglio come sia indispensabile non misconoscere i progressi raggiunti al fine di «intendere a fondo» ciò che in Michelangelo può «sembrare tanto semplice da leggere».
muscolature iperboliche…è vero…ahah
mmm… commento da leggere alla luce del tuo ultimo post? ahah! *___^
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