Uncertain states of America

Da Liberazione di ieri. L’incerto stato dell’arte contemporanea – Paolo Nelli Londra – Nelle scienze sociali l’arte è uno strumento per capire un’epoca. E l’arte contemporanea, dunque, può parlarci della nostra epoca e della nazione che l’ha prodotta. E’ con questa idea in testa che la Serpentine Gallery, di Londra, ospita la mostra itinerante, Uncertain […]

Jasper Johns, "Three Flags"


Da Liberazione di ieri.

L’incerto stato dell’arte contemporanea – Paolo Nelli
Londra – Nelle scienze sociali l’arte è uno strumento per capire un’epoca. E l’arte contemporanea, dunque, può parlarci della nostra epoca e della nazione che l’ha prodotta. E’ con questa idea in testa che la Serpentine Gallery, di Londra, ospita la mostra itinerante, Uncertain States of America. Nella dichiarazioni d’intenti viene da subito chiarita la consapevolezza che una quarantina di artisti, tutti nati dopo il ’70, non può coprire tutto il panorama artistico del nuovo millennio, ma può dare un’idea di cosa si muove oltreoceano tra gli artisti esplicitamente “politici”. » proprio questa finalità politica che rende la mostra più interessante, e facilita alcune conclusioni. La prima delle quale è la mancanza di direzione creativa che, in certi casi, è un vero segno di resa, quasi una paura della forma, dell’arte che per criticare la realtà la riproduce, innalzandola essa stessa a arte, perché riveli, da sola, il proprio fallimento. Una scatola con dentro una televisione già accesa prima di essere tolta dall’imballaggio. Le prime pagine di giornali copiate a matita a indicare gli orrori che nella storia gli Stati Uniti hanno compiuto in un giorno particolare, San Valentino e lo stesso artista che da dentro una tv dà lezione di amore a un coniglio. Pagine di giornale fotocopiate e esposte, con Bush effettivamente ridicolo su una jeep che pattuglia i confini messicani, Arriba Arriba, e Speedy Gonzales che sorride. Da dirsi che il giornale, nelle intenzioni, voleva essere a favore di Bush. O ancora contro la società dei consumi, il potere dell’effimero e la sua stupidità spaventosa, e accettata, questa volta in un giornale (vero) appeso e l’articolo (serio) di società: «Gli accessori che l’uomo spirituale deve avere». Non si può neppure più parlare di provocazione, adesso che da decenni ormai non si sa più chi debba essere provocato. Non c’è neppure cattiveria, si ha un po’ la sensazione di essere in un circo, dove i leoni ruggiscono e mostrano i denti allo schiocco della frusta del domatore, per il piacere di chi guarda. Ci sono messaggi, li si colgono con facilità, anche troppa, ma non lasciano segni, perché sono talmente scontati senza il bisogno di un’arte che si prefigura di dirceli. Soprattuto senza il bisogno di un’arte che non fa nulla di nuovo per dirli. Eppure i giovani artisti sono stati selezionati da un gruppo finalista di oltre un migliaio. O sono i curatori che hanno un gusto omologato alla globalizzazione, o anche l’arte di oggi non sfugge alla globalizzazione. Il mondo dell’arte si è ridimensionato, e la cosiddetta creatività artistica standardizzata. Se non fosse che nei video si parla americano, se non fosse che le scritte sono in inglese, potremmo essere in qualsiasi altro posto e i risultati sarebbero gli stessi. Il mondo si è fatto più piccolo e con essa la produzione artistica. Il critico dell’Observer a proposito della mostra dice: «Chi avrebbe pensato che il mondo dell’arte si sarebbe ristretto così tanto?». Tutta l’arte contemporanea è americana, come potrebbe essere italiana, australiana, giapponese, russa. Il contemporaneo ci rende tutti contemporanei a noi stessi, molto più simili gli uni gli altri, ipernutriti dalla stessa tv, dagli stessi film, dalla stessa informazione, dalle stesse ingiustizie planetarie, dalle stesse presunte proteste. Soprattutto dalla stessa politica, dallo stesso consumismo, dalla stessa dilagata recessione mentale, che ci hanno riempito gli stomaci e i cervelli e l’arte è un ruttino da cattiva digestione di quegli artisti che tutto questo lo mandano giù a fatica. Ma trattandosi di Stati Uniti, alla mostra ci si avvicina con le aspettative, indotte da decenni di dipendenza culturale, che da lì qualche direttiva nuova sarebbe potuta arrivare, perché le buone intenzioni, da sole, non fanno buona arte. Ma non succede. La carica politica, o antipolitica, è spuntata, soprattutto non originale, anche se le quotazioni degli artisti esposti sono schizzate in alto nella consacrazione di questa esposizione che ha alle spalle curatori di fama riconosciuta. Se però si accantona l’idea di trovarsi di fronte a un movimento artistico nuovo si apprezzano le soluzioni individuali. Mika Rotthenberg nel suo cortometraggio crea un setting di stanze ridimensionate e mette in scena un ciclo di produzione che fa ridere nella sproporzione di donne che lavorano un impasto dentro il quale cadono sia le lacrime che il loro sudore. O Human Statue di Frank Benson, dove il corpo umano nel suo iperrealismo diventa grottesco grazie alla variante del colorito un po’ troppo argenteo. Vengono in mente i mimi colorati immobili nelle strade del centro travestiti da statue, solo che qui è una statua che si è travestita da uomo colorandosi un po’ per essere riconosciuta. O il video, bellissimo, di Paul Chan, con ombre proiettate sul pavimento dove l’unica cosa stabile è un palo del telegrafo malmesso e telefonini, auto, treni fluttuano verso l’alto, tra il volo di uccelli e figurine umane che invece cadono nel vuoto verso il basso. C’è un linguaggio che trova la sua originalità poetica e critica, cosa non facile nell’esubero di voci. Uno storico, nel futuro, della nostra società da una mostra di arte contemporanea potrebbe dedurre che le simbologie sono identiche ormai ovunque e tutto ciò che ci circonda, che forse ci fa paura o che ci nutre o che vorremmo possedere almeno attraverso la conoscenza, viene innalzato a oggetto totemico, come un tempo potevano esserlo gli animali, le piante. Nel presente, invece, l’arte contemporanea ci dice del suo affanno a trovare soluzioni nuove, che comunque, va detto, deve essere accettato come normalità, (quante sono le cose nuove che nell’arte appaiono ogni cent’anni?). Di conseguenza si ha la ripetizione, come, appunto, è sempre successo in ogni secolo. Il nuovo a tutti i costi è anch’esso frutto del consumismo che ci ha cresciuti, e senza accorgerci ce lo portiamo negli schemi mentali anche andando a una mostra d’arte che magari sta provando a farci riflettere su di esso. Due o tre cose interessanti, in una esposizione, può già essere un buon risultato.

2 Comments

  1. interessante la teoria del “nuovo ad ogni costo”, penso la si possa trovare sempre non solo nel campo dell’arte, bensì…in molti pensieri della vita quotidiana…ciao!

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