Tony Stark, Philippe Starck e tutto ciò che avreste voluto sapere sul Salone del Mobile (se solo aveste saputo che cos’era)
Ora, se non siete di Milano, non siete del settore, avete le fette di salame negli occhi o vi trovate in una posizione mista tra queste, è probabile che non abbiate idea di che cosa io stia parlando… Posso venirvi incontro riportando ciò che dice la Wikipedia inglese: «The Salone del Mobile Internazionale is […]
Ora, se non siete di Milano, non siete del settore, avete le fette di salame negli occhi o vi trovate in una posizione mista tra queste, è probabile che non abbiate idea di che cosa io stia parlando… Posso venirvi incontro riportando ciò che dice la Wikipedia inglese:
«The Salone del Mobile Internazionale is the International Furniture Fair of Milan, the largest and most anticipated trade fair in the world. It is renowned as the leading exposition for new products by furniture manufacturers and designers and is covered by most leading design periodicals.
It is held every year, usually in April, in the FieraMilano complex in the Milan metropolitan area town of Rho.»
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Questa è stata una settimana lunghissima, non lo dico per dire: è stata una settimana di dodici giorni e, per la precisione, è iniziata lunedì 14 con i preparativi per il 47mo Salone del Mobile, è continuata in allegria da mercoledì 16 a lunedì 21 con il succitato Salone (week-end compreso, sì) ed è terminata giovedì 24 con i lavori successivi al salone, la redazione della reportistica, i contatti con la stampa che “sa, non ho visto il vostro allestimento ma vorrei scriverne lo stesso: mi manda delle foto?” e la normale settimana lavorativa.
Ora, penso che chiunque di voi eserciti una professione – e per professione intendo qualcosa di diverso dall’avere uno stipendio fisso in un posto dove non hanno bisogno di voi e impegnare le giornate a darsi lo smalto sulle unghie lamentandosi della collega stronza – abbia il proprio piccolo Salone del Mobile personale, quella fiera che giunge come la nemesi annuale, prosciuga prima dopo e durante e poi, come un’amante schizzinosa, se ne va senza nemmeno un “grazie”. Se siete di quelli che viaggiano molto per seguire questi eventi, magari avrete il CeBIT ad Hanover o il Motor Show di Parigi. Se siete di quelli che rimangono in Italia, dovrebe “accontentarvi” di razzolare al Motor Show di Bologna, voi e un centinaio di altri ragazzini invasati, o allo SMAU di Milano (insieme agli stessi ragazzini di cui sopra, se siete fortunati). Se siete di quelli che alle fiere non ci vanno… beh, vi rimando al box in alto a sinistra.
In ogni caso, dicevo, penso che chiunque di voi eserciti una professione abbia più o meno idea di che cosa sia una fiera per operatori e di che cosa si porti dietro. Bisogna però fare una sostanziale distinzione tra i normali impegni di una professione normale e “questa cosa” che faccio io. Che mestiere faccio? Il mestiere più antico del mondo. Ben prima che l’uomo di Neanderthal si rendesse conto che poteva portare pagare i favori sessuali della donna di Neanderthal con simpatici ninnoli, qualcuno girava per la caverna berciando che “questa è la zona notte, per dio, che cosa ho messo a fare la stuoia da pranzo di là se poi voi mangiare di qui”. Lo confesso, faccio la stron… ehm… l’architetto. Una professione strana, bistrattata e guardata con sospetto dall’uomo della strada, nella migliore delle ipotesi. Una professione che ha qualcosa in comune con quella del programmatore, se vogliamo («c’è qualcosa dentro di me che è sbagliato e non ha limiti, e c’è qualcosa dentro di te che è sbagliato e ci rende simili…»): è una professione vissuta in modo bulimico, con dead-line ai confini della realtà e ritmi di lavoro verso l’infinito e oltre, una professione di cui non ti riesci in ogni caso a liberare. Mai. Perché se ti ritrovi il sabato sera, la prima uscita dopo settimane di lavoro, a litigare con il direttore del ristorante perché i bagni non sono a norma di sicurezza, «c’è qualcosa dentro di te che è sbagliato perché non ha limiti».
Date in mano a gente così una fiera e non gli basterà. Come se non fossero a sufficienza 345,000 m² di mobili, c’era bisogno del FuoriSalone, una serie di eventi satellite in giro per la città (quest’anno quelli uffciali erano 627, se non vado errata, cui vanno aggiunti quelli sul design sostenibile organizzati da Interni, quelli apocrifi ecc. ecc.)
Date in mano a gente così una fiera e tutti i suoi eventi satellite e sarà indispensabile seguirli. Tutti. O sei finito. Morto. Carne da macello per colleghi più informati di te.
Così, da brava architetto monomaniaca del design, anche quest’anno ho fatto la mia parte: mattine in fiera, pomeriggi e sere ai fuorisalone (tornando a casa non proprio all’ora di Cenerentola). Vediamo un po’ che considerazioni si possono raccogliere a freddo.
Innanzitutto, un Salone più orientato al prodotto che allo spettacolo, quest’anno: allestimenti molto funzionali e con poco coraggio, salvo rarissime eccezioni. Persino Ferruccio Laviani, con Kartell, quest’anno fa un allestimento giallo terribilmente dispersivo che sembra il nipote brutto di quello del 2006. Meno fronzoli e più attenzione al prodotto, insomma, e quest’anno è decisamente l’anno dell’onnipresente Philippe Starck ma anche l’esplosione di Patricia Urquiola, presente con decine e decine di prodotti. Li affianca, con la finezza e la nonchalance che lo contraddistingue, una presenza massiccia anche di Piero Lissoni (la cui nuova vasca per Boffi è qualcosa di sublime, ma vedo di parlarne dopo).
Tra padiglioni come quelli dell’anno scorso, padiglioni tutti bianchi (e quest’anno il fuorisalone era tutto bianco, ma proprio tutto), padiglioni con acqua e faretti a creare un delizioso effetto bagno turco, il girone infernale dell’euroluce e i nuovi omini di Alessi, per finezza ed eleganza spiccavano in positivo il padiglione di Glas e in negativo il padiglione di Fendi, anche quest’anno tutto chiuso, anche quest’anno con accesso riservato agli accreditati, e anche quest’anno la sensazione era quella di fare la fila per entrare al Savoy e ritrovarsi da Mel’s Diner.
Per quanto riguarda i prodotti, vi parlerei volentieri del nuovo vaso di Starck, Misses Flower Power (sic) per Kartell, se non fosse che… beh, è il moderno sarchiapone. Sì, perché è alto alto alto, però il vaso poi è basso, ma non nel senso che è basso, perché è in alto, ma basso nel senso che è piccolo. Però il vaso, tutto, è enorme, eh? A parte questo, è trasparente, ma non trasparente trasparente, perché è anche un po’ sabbiato, ma non sabbiato sabbiato, perché sembra che il granulo sia nell’impasto e… sì, faccio prima a mostrarvelo.
Visto che ho parlato di lui e la Urquiola potrebbe offendersi, facciamo il paio e vi mostro anche la nuova sedia della designer spagnola, la plissettata Frilly sempre per Kartell (a sinistra).
Come dite? Non vi piace? Ah, neanche a me. Ma quest’anno, purtroppo, è anche l’anno delle sedie traforate e plissettate, della plastica tessuta e lavorata in modo bizzarro. Solo Kartell, quest’anno, ne presentava almeno quattro: la succiata Frilly, la pieghevole Honeycomb di Alberto Meda con seduta e spalliera traforata ad alveare (vedere il dettaglio per credere), la zigrinata Papyrus di Ronan and Erwan Bouroullec (credo sia zigrinata a mano da piccoli bambini pakistani) e, dulcis in fundo, il pezzo che meno ho gradito dell’intero salone, la sedia intrecciata Ami Ami di Tokujin Yoshioka (che magari non sapete chi diavolo sia ma vi assicuro che è stato un’altra forte presenza al salone di quest’anno). In tutto ciò, devo ammettere che – per quanto fan della plastica trasparente – ho provato conforto al vedere le linee morbide del nuovo sistema tavolo-sedia Spoon di Antonio Citterio, trovandomi ad abbracciare il montante del tavolo come se fosse Winnie the Pooh.
Essendomi soffermata così tanto su Kartell, dovrei ora come minimo parlarvi di Driade o di qualche concorente, ma mi limiterò a segnalarvi un video del party da loro organizzato, e via andare. Perché bene o male del Salone frega molto a molti, ma è del fuorisalone che frega tanto ai più. Anche perché i più un pass per entrare al Salone è probabile che non lo vedranno mai nella loro vita. E così, che cosa c’era di interessante al FuoriSalone quest’anno?
Dipende.
E dato che vedo scintillare gli occhietti di Damiani, inizierò dagli eventi glamour e da chi è sparkling per definizione ovvero Swarovski. Il suo crystal palace in zona Tortona, quest’anno, vedeva l’allestimento a più mani di svariati prodotti di design, decisamente eterogenei. Il mio preferito era il lampadario di Piero Lissoni (qui a destra), decisamente, seguito a considerevole distanza dal Veil di Paul Cocksedge, che sarebbe stato molto meglio senza il subliminale viso, e dai blocchi di Tokujin Yoshioka. Inguardabili, oltre che manifestazione della deprecabile recente tendenza di Swarovski a fare cristalli colorati, il gigantesco mappamondo di Studio Job e il mosaico di Marcel Wanders e Bisazza, di fronte ai quali persino il paraboloide di Zaha Hadid e i vasi frantumati del gruppo Front sembravano avere un senso.
Al secondo posto per classe e luccicore, di nuovo Kartell con ben tre eventi: il blindatissimo party con Dolce & Gabbana, la Mademoiselle à la mode creata con un ivestimento Valentino alla sedia Mademoiselle di Starck (già “vestita” da Missoni) e soprattutto il piccolo allestimento in collaborazione con Vhernier, con vetrine di una delicatezza assoluta dove i gioielli della casa tedesca si arrampicavano sugli Stone, gli Optic Cube e gli altri sgabelli Kartell. Delizioso.
Non ne potete più di sentir parlare di Kartell? Beh, peccato, perché si guadagna il posto del leone anche tra gli eventi eccessivi, chiassosi, fuori scala e decisamente kitsch con il suo allestimento ai Giardini della Triennale: chiunque abbia il coraggio e l’incoscienza di allestire gigantesche sedie ricavate dalla potatura delle siepi, merita che gli si perdoni lo stand non all’altezza.
E se vi piace il genere, non posso non parlarvi anche dell’allestimento E-motion X-perience al Cinema Mexico (per i più informati, quello del Rocky Horror Show), parto della mente di un geniaccio toscano che si aggirava nel suo spazio vestito come Willy Wonka (ma decisamente più fetish): Luca Bolognese – questo il nome del simpaticissimo e talentuoso personaggio – insieme a Silvia Scuffi Abati ha messo in piedi un allestimento in cui il prodotto era uscito dalla fantomatica locandina di un altrettanto fantomatico film con tanto di titolo e trama. Ci si trovava così di fronte ad una lampada uscita dal fantascientifico Il Ritorno del Mosaico, novella Morte Nera, o ad una sedia di palline da tennis “ispirata” al giallo sportivo The Last Smash. Corredava il tutto, come se non fosse abbastanza, un cd con la colonna sonora. Rigorosamente originale e creata per l’occasione. Rigorosamente interpretata da Bolognese. Raccomandata dall’autore come estremamente erotica, perché magari «sentendo cantar di rubinetti, sul divano, scatta l’eros». Chapeau.
E, parlando di eros, come non citare il concept store Angelique Devil in via Cerva (fuori dal circuito della zona Tortona, ma in pieno centro e a due passi da una deliziosa bottiglieria, ma questa è un’altra storia), con i raffinati gioielli di Matteo Cibic, «che all’occasione si trasformano in strumenti di piacere». Si sa, l’occasione fa l’uomo ladro.
E’ a questo punto che dovrei dire “bando alle ciance” e mettermi a parlare seriamente di tutti gli altri eventi fuorisalone, specie quelli in zona Tortona. Dovrei magari parlare dello spazio Boffi ai Magazzini di Porta Genova o del M.A.S.T. (Modulo Abitativo Sensoriale Transitivo) con tanto di scivolo, della seduta modulare Livina allestita da Jan Contreras nello spazio collettivo Sparkling, o dell’interessante collettiva Tuttobene di via Mortara, degli arredi scomposti di Artecnica, dei danesi di MindCraft o del graditissimo allestimento enogastronomico Wine & Design di AtelierItaliano (dove, ahimé, il Vin Santo e i cantuccini erano già finiti lasciando solo mediocre vino rosso e fave), dell’installazione di copertine di Wallpaper* nello splendido spazio di Zegna, che sarebbe piaciuta a Damiani. Dovrei parlarvi forse dello spazio siderale Bernhardt (a sinistra la loro sedia Celon, di Molina) o delle meravigliose cucine con fornello a induzione di Foster (e io, sul fornello a induzione, non sono ancora riuscita a formarmi un’opinione). Magari accennare qualcosa sulle streghe moderne dello Studio Tord Boontje con i loro lampadari vegetali e il vasellame nero, i grembiuli in pelle ed i cappelli a punta. Dovrei probabilmente menzionare, almeno di striscio, la mostra collettiva Japan Design Innovation, che francamente sembrava più un negozio della Sony che un evento fuorisalone. Spendere due parole per il ruolo del tessile in tutto ciò, con le sedie elastiche di PetraVonk e ThisIsJane, simili alla poltrona Margherita di Angelo Grassi in mostra da un’altra parte, gli affascinanti abiti di Glix, le pitture di DragaObradovic (benché scarsamente ammirabili perché l’entourage della “cuggina” di Giusec vi si era accomodato), magari potrei esprimere un po’ di perplessità per gli sgabelli capelloni di Dejana Kabiljo e le maniglie retroilluminate di Free: Go, o ancora ricordarmi perché non ho preso neanche un biglietto da visita della tizia con gli omini floreali. Potrei lasciarmi andare ad una qualche esclamazione come “voglio i rubinetti ST anch’io”. Ma non ce ne sarebbe il tempo.
Faccio quindi una carrellata di quello che più o meno meritava in zona Tortona. Innanzitutto la Hot Lamp da tavolo di Nero e Acciaio in mostra da Sparkling: montatura squadrata in acciaio, forma cubica, facce di vetro in varie tonalità di rosso disposte a forme concentriche. Erotica e psichedelica.
Al secondo posto, papaveri e papere di vetro ad opera di Candida Menci per Collevilca all’Extraordinary Domestic Home Show dello spazio Allegri, che vedeva anche installazioni di Paola Navone, Manola del Testa e Gio Ponti, rispettivamente per Egizia, RCR e Richard Ginori (tutto rigorosamente all’insegna del fuoriscala).
Terzo, anche se non lo vorrei in casa mai e per nessun motivo, lo sgabello di plastica My deer dell’olandese Jeoen Wesselink, che all’occorrenza (occorrenza di cosa non è chiaro) si ribalta e si appende alla parete diventando un appendiabiti a forma di trofeo di caccia. Vedere per credere.
Seguono a ruota lo spazio di DogThing, con le sue blatte di metallo verde, i gioielli essenziali di Niessing, l’officina metalmeccanica La Fabbrica dei Sogni con il suo leonardesco automa di latta Caterina, il museo dei brand ospitato in via Tortona 4, i mobili in plexiglass con imbottitura quadrata modulare di Ch@ir Design, il cui agente si guadagna anche la palma del più cortese e disponibile sul campo.
Premio sorpresa per lo spazio bianco ed essenziale di Cyrus, il cui catalogo non rende onore alla pulizia e all’essenzialità dei prodotti.
La palma dell’oggetto più brutto, vecchio e senza spirito se la guadagna invece la sedia del tubo di Sander Bokkinga, fatta arrotolando una canna gialla dell’acqua.
La palma dell’oggetto più incomprensibile va invece ad un altro olandese, Alon Alex Gross, per il suo fiore di raccolta dell’acqua. Se qualcuno me lo spiega, mi fa un favore.
Ma i più attenti non si saranno fatti distrarre dalle mie chiacchiere e si staranno domandando cosa c’entri in tutto ciò Tony Stark. Facile. Girando tra questi eventi traboccanti champagne gratis e gente ansiosa di offrirvi da bere, si diventa alcoolizzati. Per forza.
La descrizione del vaso di Starck è… semplicemente perfetta.
CM&F
dimmi che quelli nelle foto non sono i mobili del futuro, perchè altrimenti non vale la pena di vivere per vederli
@ ragno: sono i mobili del presente. Informati, magari c’è qualche pianeta del sistema esterno su cui ti puoi rifugiare.
Shelidon hai superato te stessa.
questo post è esemplare per chiunque voglia continuare a scrivere per i blog!
inchino.
Damiani, tu mi lusinghi.