Lucy in the stars
Dal Corriere della Sera di ieri, un interessante articolo di Claudio Magris sulla questione del creazionismo. Inutile dire come la penso. Per chi possiede il quotidiano, invito anche a leggere l’umoristico trafiletto superiore, di Ernesto Galli della Loggia, sulla parte di Chiesa in disaccordo con il papa riguardo alle questioni etiche. Deboli di stomaco astenersi. […]
Dal Corriere della Sera di ieri, un interessante articolo di Claudio Magris sulla questione del creazionismo. Inutile dire come la penso. Per chi possiede il quotidiano, invito anche a leggere l’umoristico trafiletto superiore, di Ernesto Galli della Loggia, sulla parte di Chiesa in disaccordo con il papa riguardo alle questioni etiche. Deboli di stomaco astenersi.
Se qualcuno mette in dubbio la virtù di mia madre, ha detto una volta Borges, lo ammazzo; se diffama mia nonna, lo schiaffeggio; se insinua che ad essere stata una puttana è la mia bisnonna, reagisco con minor furore e quasi con una punta di curiosità, e ci si può immaginare il progressivo intiepidimento delle sue reazioni man mano l’offesa risale indietro, al buio delle origini. Come dovremmo rispondere a chi insultasse la nostra trisavola Lucy, la giovane e graziosa femmina di australopiteco vissuta 3,5 milioni di anni fa, il cui scheletro è stato trovato in Africa, nell’Afar etiopico, da Yves Coppens nel 1974, insieme ad altri ricercatori? D a tempo sappiamo che l’universo, a differenza da quanto affermava il vescovo anglicano Ussher, non è stato creato il 23 ottobre 4004 avanti Cristo, di domenica, ma sino a poco fa la conoscenza dei miliardi di anni di esistenza del cosmo e dei milioni di quella dell’uomo restava un sapere teorico e astratto che non pervadeva la sensibilità, non influenzava la vita né il modo di percepirla. Nato a Vannes nel 1934, professore di Paleoantropologia e Preistoria al Collège de France, membro delle più grandi accademie scientifiche e insignito dei più prestigiosi riconoscimenti, Yves Coppens non è soltanto uno dei grandi scienziati e ricercatori che hanno contribuito a fondamentali scoperte sulle origini dell’uomo e sulla sua storia di lunghissima durata, che coinvolge quella del clima, del pianeta e dell’universo. Grazie alle sue singolari capacità di scrittore, egli è stato anche capace di divulgare le più audaci scoperte scientifiche senza perdere nulla della loro complessità. La combinazione di ricerca sul campo, scoperte scientifiche e chiara esposizione narrativa ha permesso a Coppens di farci sentire concretamente, direi quasi fisicamente, che Lucy è una nostra antenata: che la nostra storia non inizia con le ziqqurat, le arcaiche misteriose torri mesopotamiche forse modello di quella di Babele, e nemmeno con le mirabili pitture delle grotte di Altamira (ventimila anni fa, ieri), bensì milioni di anni prima, con quei nostri avi che nelle savane africane colpite da una spaventosa siccità hanno dovuto alzar la mano all’albero e trovare la posizione eretta, fare quei primi passi – i «pre-amboli», cui s’intitola un suo libro – che li hanno diversificati da altri primati rimasti nella foresta nutrita dalle piogge. Sino a poco fa, sapevamo – sia pur imprecisamente – tutto questo ma lo consideravamo un prologo che non ci riguardava; per noi la Storia aveva qualche migliaio d’anni, la caduta del mondo antico e l’avvento del Cristianesimo erano per la nostra sensibilità il suo spartiacque e il suo momento di svolta, come se Adamo ed Eva fossero apparsi pochi millenni fa e prima non ci fosse nulla che per noi contasse veramente. Il Cristianesimo era sorto «nella pienezza dei tempi», al centro del divenire storico; ora si situa in un punto qualsiasi di una linea evolutiva la cui vista si perde.
Tutto ciò sconcerta, ma anche arricchisce – pur nel brivido dell’immenso e dell’ignoto – il caldo senso dell’appartenenza di ogni individuo a una vastissima famiglia, a un tempo dilatato oltre l’immaginabile; ci fa sentire partecipi della vita dell’universo, presente nelle nostre vene. Con i suoi studi e le sue ricerche – frutto, come sempre nella scienza, pure di lavoro di équipe – Coppens ha individuato il momento in cui in Africa, culla del genere umano, dagli ominoidi, dai Panidi, si staccano gli ominidi e poi si evolvono gli uomini. Dal purgatorius, il più antico primate conosciuto, si passa – non in linea diretta – ai primi primati superiori; al piccolo egiptopiteco (34-35 di anni fa); al proconsul dal cranio già più sviluppato, al kenjapiteco (14-15 milioni di anni fa), all’australopiteco e a quell’individuo che appare circa tre milioni di anni fa, con un encefalo più sviluppato e più vascolarizzato, che è già l’uomo, il quale coabita circa per un milione di anni con l’australopiteco, forse incrociandosi talvolta con lui e soppiantandolo e sviluppandosi via via nell’homo habilis, erectus, sapiens, il quale ultimo distrugge quello di Neanderthal, che dunque non è un nostro antenato quanto piuttosto un nostro cugino estinto. Contrariamente alla vulgata corrente, l’uomo non discende dalla scimmia e men che meno da scimmie oggi esistenti, bensì discende da un antenato comune ai primati ed è meno vicino ad alcuni di essi come l’orango e più ad altri come lo scimpanzé, col quale condivide più del 98% del corredo genetico, come ricorda Jared Diamond nel suo libro Il terzo scimpanzé. Dal punto di vista puramente genetico quello che ci accomuna allo scimpanzé è più di ciò che accomuna quest’ultimo all’orango; il che dimostra che il patrimonio genetico non è tutto. La teoria dell’evoluzione, di cui Darwin è stato incomparabile scopritore e geniale narratore, ci inserisce in una storia più grande. Il creazionismo che si oppone – irosamente e sempre più goffamente – ad essa offende il senso religioso cui si appella, perché ha una rozza, riduttiva concezione antropomorfica di un Dio che fabbrica mondi e creature come si fabbricano giocattoli robot. La storia dell’evoluzione, da quei pezzi di materia sparati dal big bang alle prime alghe all’uomo preistorico che dipinge sulle pareti delle grotte di Altamira capolavori degni di Michelangelo, può dare invece il senso del divino e della creazione come un processo continuo, dell’Eterno il quale vive nei mutamenti che mette in opera – quell’Eterno, scriveva in una memorabile lettera Biagio Marin al suo traduttore cinese, che le nostre contingenze sono chiamate a decorare per un istante; come, potremmo aggiungere, le irripetibili sfumature di colore di un tramonto decorano la grande legge che presiede al moto degli astri e alla rifrazione della luce. Nel suo ottimo libro Dio e Darwin , Orlando Franceschelli parla pure della grande poesia che può nascere da questo sentimento sereno di appartenenza alla tela del cosmo nelle sue perenni combinazioni e dissoluzioni: la poesia di Lucrezio, di Leopardi, della lirica T’ang cinese immersa nel fluire grande delle cose. Certo, altre volte si prova orrore dinnanzi all’infinita ripetizione di morte, distruzione e sofferenze forse inutili e si vorrebbe che il big bang non avesse mai avuto luogo. Le reazioni più trivialmente infastidite alla teoria dell’evoluzione provengono non tanto dalle religioni quanto dalle filosofie vagamente spiritualiste, come ad esempio lo storicismo crociano: quando Croce contesta a Darwin di propagare «la vergogna di origini animalesche» dell’uomo e dello Spirito, gli si potrebbe chiedere – visto che egli non può appellarsi a un Dio che colloca d’un tratto Adamo ed Eva in un giardino – da chi e da cosa egli pensa provengano gli uomini e il loro Spirito, quali siano i suoi antenati. Lo Spirito non è meno nobile se fa i conti con la materia che lo costituisce, a cui dà senso e da cui è indissolubile; il Verbo, dice la Scrittura, si è fatto carne (sinapsi di neuroni, sudore di sangue nella notte del Getzemani) e in cui consiste la sua verità. Anche lo sguardo col quale ogni tanto un cane ci guarda con autentico e toccante amore è il prodotto di un complesso processo neurofisiologico formatosi nel corso di migliaia di anni e ciò non toglie nulla all’affettività che lo lega a noi e ci lega a lui. Nella «complessità crescente» dell’organizzazione della materia Teilhard de Chardin, sacerdote, ha visto il concreto agire di Dio. Sì, se siamo gentiluomini dovremmo schiaffeggiare chi offendesse bisnonna Lucy. Altri, più seri interrogativi ci turbano e ci danno un senso di vertigine. Anzitutto, come osserva Roberto Finzi, è certo che si possa definire «progresso» il percorso dal purgatorius a noi oppure questo giudizio di valore è un arbitrario punto di vista della nostra specie elaborato dal meccanismo dell’evoluzione, una menzogna vitale per poterci credere i signori dell’universo o addirittura il suo fine? Se giustamente rifiutiamo di considerare, come i positivisti volgari, la donna meno intelligente dell’uomo perché ha un cervello più piccolo, si chiede Finzi, perché invece questo stesso criterio deve valere per considerarci più intelligenti dell’australopiteco?
E se fosse vero che i batteri sono meglio organizzati di noi per sopravvivere ai mutamenti della natura – quei mutamenti climatici che, secondo Coppens, sono stati essenziali per la nascita dell’uomo, ma ora potrebbero essere altrettanto determinanti per la sua estinzione, grazie alle trasformazioni cui egli sottopone la natura? Ma non è tanto questo che turba i nostri rapporti con i cugini discendenti dal purgatorius. La nostra esistenza e la nostra morale si basano su una radicale distinzione tra gli uomini e le altre creature viventi. Possiamo e dobbiamo essere meno crudeli possibile con gli animali, ma non possiamo vivere senza far loro violenza; anche il vegetariano uccide con ogni respiro esseri invisibili ma non perciò meno vivi; pure l’animalista cerca di annientare i microbi che lo assaltano. Non è possibile applicare l’etica kantiana agli animali né porre sullo stesso piano il genocidio di esseri umani e la distruzione di specie animali. Per l’universo, la Shoah e l’estinzione dei dinosauri sono probabilmente due fenomeni non troppo diversi, ma per noi no. Non è la religione ma sono l’etica e l’umanesimo a venir messi in crisi da un naturalismo radicale e a costringerci a separarci, nettamente e anche violentemente, dalla totalità dell’universo vivente, da tutte le altre creature. Può darsi sia questo il peccato originale. Lucy ci è ancora relativamente vicina, ma il nostro albero genealogico risale ancora più indietro: al momento in cui la materia elementare cominciava ad aggregarsi in strutture via via più complesse, alla materia incandescente che precedeva la comparsa delle stelle, a quei frammenti impazziti nello spazio subito dopo il big bang prima di trovare un ordine. Sarebbe veramente difficile schiaffeggiare chi offendesse una di quelle molecole che iniziavano i loro pasticci. Eppure, quando a Trieste vado a trovare Primo Rovis e a vedere la sua straordinaria collezione di minerali e fossili, forse unica al mondo, quelle druse di ametista e citrino, quei geodi giganti fioriti di rose, quei carbonati, quei cristalli di assoluta perfezione geometrica all’interno di una pietra di ametista mostrano il volto di una realtà che anch’essa è a suo modo viva, perché la sua morfologia obbedisce a precise leggi che creano una bellezza incredibile e al di là dell’umano. Tutto ciò sembra indicare che perfino la frontiera tra vita organica e inorganica, tra vita e non vita è labile e inconsistente. Anche quelle gemme di miliardi di anni fa incutono un rispetto verso venerande madri e non solo per la forma di grembo e di organo femminile che spesso assumono. E ci si chiede se i nostri bispronipoti fra millenni e millenni non potranno essere altrettanto diversi da noi quanto noi lo siamo dal proconsul o dalle alghe azzurre unicellulari delle origini, cosa ancor più difficile da accettare. Oggi, miliardi di anni fa, miliardi di anni futuri; il tempo si contrae, si rapprende nel cristallo o nell’agata che lo contiene. «Sono il fiume ansioso di gettarsi nel tuo mare» – scriveva nel 600 il poeta gesuita Angelus Silesius rivolgendosi a Dio – «ma sono anche già il tuo mare».