
Non ne sono una fan sfegatata come altri, ma per apprezzarlo di più consiglio a tutti la lettura di La cognizione del dolore fatta da Alessandro Baricco in occasione di una delle puntate di Totem.
Articoli dal Manifesto di oggi.
Da Leibniz le ipotesi del «gran lombardo» su come organizzare il groviglio conoscitivo – Mario Porro
Della vita e dell’opera di Carlo Emilio Gadda, così schivo e riservato nei suoi rapporti col mondo, abbiamo finito per conoscere quasi tutto. Il più grande prosatore italiano del ‘900 ha cercato in modo maniacale di nascondere i riferimenti alla vita privata presenti nelle sue pagine, di celare ad esempio i tratti che facevano della Cognizione del dolore la sua «tragica autobiografia»; ma la sua nevrosi di «archiviomane» e la stima degli amici hanno complottato nel rendere pubbliche molte delle sue lettere. Il IV numero dei «Quaderni dell’Ingegnere», la rivista dedicata al Gran Lombardo e curata con la passione di sempre da Dante Isella, raccoglie la corrispondenza con l’editore Livio Garzanti; sono lettere degli anni dal 1953 al ’69, e nelle prime dominano le giustificazioni per i continui ritardi (solo in parte motivati dalle condizioni di salute) nella consegna dei capitoli del Pasticciaccio. La rivista contiene anche inediti da tempo attesi dagli studiosi di Gadda: le note preparatorie e l’abbozzo della tesi di laurea sui Nuovi Saggi sull’intelligenza umana di Leibniz. Reduce dalla grande guerra in cui era partito volontario, dopo la laurea in ingegneria nel 1920, Gadda si lascia guidare da quell’«ictus philosophandi» in lui già vivo dai tempi del liceo; si iscrive al terzo anno di Filosofia presso l’Accademia Scientifico-letteraria di Milano. Gli impegni di lavoro faranno sì che solo nel ’28 prenda avvio il lavoro per la tesi concordata con Piero Martinetti, il cui «eretico» kantismo avrebbe inciso profondamente sullo scrittore(come ci ha spiegato Federico Bertoni nel suo libro titolato La verità sospetta, Einaudi). Dotato di istanze critiche nei confronti del neoidealismo imperante all’epoca, e impegnato in una difesa della libertà morale che lo portò a rifiutare il giuramento di fedeltà al regime nel 1931, Martinetti ha avuto un ruolo rilevante nella filosofia italiana, come testimonia il bel libro di Amedeo Vigorelli a lui dedicato, che ha come sottotitolo «La metafisica civile di un filosofo dimenticato» (Bruno Mondadori), tanto che la sua lezione venne ripresa dalla «scuola» milanese di Banfi e Geymonat. Martinetti, dunque, nutriva grandi speranze nel suo non più giovanissimo studente – Gadda era nato nel 1893 – come si legge anche in una lettera in cui profetizzava all’«ingegner fantasia» un avvenire cattedratico: «la via dell’università (per storia di filosofia) Le sarebbe aperta». L’abbozzo della tesi redatta da Gadda si sofferma quasi esclusivamente sulla prima parte dei Nuovi saggi leibniziani e rilegge la questione dell’origine delle idee e dell’innatismo in una prospettiva kantiana. Il problema fondamentale è quello dei principi che permettono di costruire un’impalcatura del mondo, cioè di metterlo in ordine, di mostrare dunque la consecuzione razionale delle cose; si ritrova così la questione che assilla il Gadda narratore-filosofo, «organare il groviglio conoscitivo», indagare sulle cause e le ragioni degli eventi. Il problema, su cui già meditava la prima prova di romanzo, il Racconto italiano del ’24, ritornerà nella Meditazione milanese che Gadda compone fra la primavera e l’estate del ’28. Le poche decine di pagine dell’abbozzo relativo alla sua tesi di laurea ci aiutano a comprendere perché Gadda avrebbe disatteso la profezia di Martinetti: il suo interesse per Leibniz non è quello di uno studioso che con acribia filologica dispone pazientemente i pezzi di un saggio critico, bensì quello di un pensatore originale che insegue in Leibniz quanto può sfruttare per i problemi che lo assillano. A Gadda interessano, osserva Fabio Minazzi nel saggio di commento, «le faville di nuovi pensieri» che si sprigionano nella polemica di Leibniz contro il «demoniaco Locke». La «complessità della rappresentazione», che induce Leibniz a riconoscere inclinazioni e disposizioni virtuali nelle «pieghe» del pensiero, viene ricollegata al naturalismo di Giordano Bruno: la capacità conoscitiva è integrata all’essere, la materia è ovunque organica e dunque «Il razionalismo leibniziano si dilata nella natura, assai al di là dei confini dello spirito umano». Sono pagine, queste, in cui troviamo già abbozzata quella «coscienza della complessità» che Gadda dirà nella Meditazione propria al suo modo di pensare. Soltanto da poco la critica valuta i «conati» verso cui si spingeva la sua riflessione sul «sistema» come complessità organizzata alla luce di quelle scienze trasversali (in primo luogo la teoria dei sistemi) che hanno cercato nel ‘900 una visione integrata di meccanico e organico. Non è certo casuale che questo accada misurandosi con Leibniz, il pensatore della modernità a cui più si è richiamato il secolo scorso: a Gadda sfugge la dimensione logico-matematica e linguistica, ma non le componenti che delineano in Leibniz un’immagine della realtà e del pensiero contraria alla semplicità lineare della Ratio cartesiana. Così, fra i temi metodologici proposti da Gadda c’è la «critica del metodo di isolamento» o di astrazione; il «senso del complesso» impone di connettere ogni singolo aspetto al molteplice e al tutto, secondo un orientamento che oggi diremmo olistico o sistemico. Ma è già chiaro a Gadda in cosa non sarà più seguibile il pensatore tedesco: «Leibniz distingue ipotesi da certezza, perché crede ancora a una certezza Le mie idee personali sono rivolte invece a riconoscere lo stato ‘ipotetico’ e ‘provvisorio’ in tutta l’organizzazione della conoscenza». Non si dà più armonia prestabilita, né monade suprema che possa sconfiggere il caos del mondo, affidato ormai a una «disarmonia prestabilita», secondo la felice formula con cui Giancarlo Roscioni ha espresso il pensiero di Gadda.
L’ingegner fantasia iscritto al modernismo – Pierluigi Pellini
A parlare di modernismo in Italia, si rischia ancora di evocare sfocati ricordi liceali, che più che rinviare al manuale di letteratura rimandano a quello di storia, ricordando la determinazione e l’intransigenza di Pio X, il quale attraverso il decreto Lamentabili del luglio 1907 e l’enciclica Pascendi di due mesi dopo, condannò definitivamente il modernismo, definendolo «la sintesi di tutte le eresie». In area anglosassone, invece, nessuno penserebbe a una corrente di rinnovamento ecclesiale: perché Modernism è l’etichetta che raggruppa le più importanti esperienze letterarie del primo Novecento, da Pound a Joyce. Non che sia agevole circoscriverne i confini: gli autori modernisti sono accomunati dal rifiuto delle convenzioni letterarie codificate e da un rapporto problematico con il pubblico e la nascente cultura di massa; a contatto con la complessità urticante della vita moderna, corrodono ogni certezza ideologica e insinuano il sospetto sulla trasparenza del linguaggio: senza rinunciare, tuttavia, a un’aporetica ricerca di verità. Ma altre questioni restano aperte: se fare risalire il ‘movimento’ a Flaubert e ai più avanzati esperimenti naturalisti, se includere nei suoi ranghi Conrad o Proust, se considerare le avanguardie storiche come esperienze alternative o come espressioni estreme della stessa temperie culturale. Dall’estetismo alle avanguardie. Nel campo dell’italianistica, è venuto non a caso da due studiosi che lavorano oltre Oceano il primo, importante tentativo di riconoscere un Italian Modernism (University of Toronto Press): i curatori del volume così titolato, Luca Somigli e Mario Moroni, optano per un sondaggio storico che spazia dall’estetismo fin de siècle alle avanguardie e non si concentra specificamente sul genere-romanzo. Solo in parte, perciò, possono raccogliere la sfida di passare al vaglio del modernismo i grandi narratori del nostro primo ‘900 – Pirandello, Tozzi, Svevo, Gadda – per sottrarli a categorie vaghe, come quella stretta nella formula letteratura della crisi o perfino, nel caso loro, abusive (il troppo fortunato decadentismo). Su questa strada si mette invece con decisione il libro di Raffaele Donnarumma titolato Gadda modernista (Ets, 2006, pp. 189, euro 15,00), in cui sono raccolti saggi che tornano su temi non certo nuovi, come la riforma del «concetto di causa» e le letture filosofiche dello scrittore, i modi della satira e dell’umorismo, o il controverso rapporto con Milano; ma li si affronta tenendo fermi tre presupposti che garantiscono l’originalità, anche polemica, del volume. Primo presupposto: l’autore del Pasticciaccio è innanzitutto un narratore. Sembra un’ovvietà, ma la persistente fortuna di letture fondate esclusivamente su spogli linguistici lo ha trasformato in prosatore puro (d’arte, magari), o perfino in lirico, trascurando la sua aspirazione al «romanzo romanzesco», la sua nostalgia sincera per «l’intreccio dei vecchi romanzi»: ormai impraticabile, certo, ma pervicacemente perseguito, complicato, e infine sgretolato dall’interno, senza mai venire eluso o disprezzato. Non a caso, infatti, per schematizzare lo «sviluppo» di quell’abbozzo di romanzo giovanile che fu Un fulmine sul 220, Gadda si prende la briga di disegnare una balzachiana «parabola», scandita in cinque punti, con tanto di «impostazione», «catastrofe in potenza» e «catarsi tragica». L’indagine sul concetto di causa, che il Gadda filosofo si industria a volere riformare (non cancellare), ha motivazioni al tempo stesso conoscitive e narrative. Lo lasciano già intuire, a sprazzi, gli appunti per la seconda e mai conclusa tesi di laurea, quella su Leibniz, ora pubblicati per le cure di Riccardo Stracuzzi nel quarto degli einaudiani «Quaderni dell’Ingegnere» (ne parla l’articolo qui sotto); l’altro pezzo forte del fascicolo sono le lettere che lo scrittore ha inviato al suo «main-publisher», Livio Garzanti, fra il 1953 e il 1969. L’inquieto laureando elabora il suo «fenomenalismo in continua deformazione», per «presentare la complicatio omnium» (lo dimostra Fabio Minazzi nello stesso fascicolo della rivista) come «fondamento» della metafisica leibniziana e «della sua personale percezione del mondo». Più tardi, sostituendo il «diorama delle concause» alla linearità della catena causale, Gadda privilegia lo spazio sul tempo, puntando su una «coesistenza logica» degli eventi, che apre falle insanabili nella sequenzialità del racconto. Se ormai l’auspicata «parabola» è votata alla dissoluzione, non resta al narratore che ricorrere a una costruzione per blocchi tematici, di lontana ascendenza naturalista; o affidarsi al determinismo «a ritroso» della vita psichica, in un romanzo come il Pasticciaccio, dove forte, sottotraccia, è la presenza di Freud. Luoghi comuni però fondati. Secondo presupposto: il barocco, l’espressionismo linguistico, la milanesità, il «gaddismo» dei «nipotini dell’Ingegnere» – ossia i luoghi comuni di tanta critica gaddiana – sono categorie non prive di oggettivi fondamenti, e perciò verosimilmente destinate a lunga vita; ma bisognose di verifiche e puntualizzazioni: come quella, lapidaria ma nella sostanza esatta, offerta dall’ultimo capitolo del libro di Donnarumma, che denuncia gli equivoci della «funzione Gadda», tracciando il diagramma delle marginali affinità, e delle incommensurabili distanze, fra Pasolini, Testori, Arbasino, Manganelli, Vassalli, Consolo e il loro presunto modello. Sorte non migliore è riservata al binomio, Gadda e Milano, che campeggia in testa a un capitolo tutto percorso da una forte tensione politica: perché alla costruzione del mito dell’Ingegnere lombardo, con il suo risentimento etico e razionalista, non sono estranee – sospetta Donnarumma – motivazioni ideologiche che appartengono ai critici, e all’oggi, più che allo scrittore, allergico a ogni moralismo e non restio allo scandaglio dell’irrazionale. Di Milano, in Gadda si dice (quasi) soltanto male: della borghesia come del popolo; e i soggiorni a Firenze e Roma non contano meno della formazione lombarda. Del resto, un approccio «geografico», o peggio localistico, non può che mancare il bersaglio, se pretende di spiegare i grandi del Novecento. Con buona pace dei troppi, superficiali emuli di Carlo Dionisotti. Ipotesi per una genealogia. Terzo presupposto: è costante il tentativo di sottrarre Gadda alla sua ineffabile unicità, o alla metastorica compagnia dei maccheronici, inserendolo a pieno diritto nella tradizione del romanzo europeo, con i suoi padri nobili ottocenteschi e, appunto, i più recenti e affini sviluppi modernisti. Del resto, la genealogia letteraria cui guardava l’autore della Meditazione milanese allinea i nomi di Balzac, Dostoevskij e Zola. Anche di Manzoni, naturalmente: innanzitutto perché grande narratore, accidentalmente perché lombardo. E ignora invece la troppo spesso invocata, e irrilevante, Scapigliatura milanese. Del modernismo si attaglia a Gadda, soprattutto, la «dialettica irrisolta e vitale fra autoriflessività e spinte realistiche», che si ostina a chiedere conto di una «verità», non rinuncia a indagare la corposa materialità del mondo fenomenico e disgrega dall’interno le strutture narrative tradizionali. Certo, l’Ingegnere dava sfogo al suo ironico autolesionismo, quando si definiva «minimissimo Zoluzzo di Lombardia». Ma l’ironia, si sa, è spesso ambivalente: e Gadda – «un modernista che ha molti debiti col positivismo», come spiega bene Donnarumma – è forse più vicino a Zola, e meno lombardo, di quel che siamo abituati a pensare.





No Comments